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104 EURIPIDE


Il guaio è che i personaggi non interessano. Abbiamo visto perché. E dobbiamo soggiungere che, anche se fossero meglio caratterizzati, difficilmente potrebbero interessare. L’abbiamo già detto: di fronte a una tradizione tanto radicata nel sentimento e nella fantasia di tutti, questa favola paradossale ha troppo carattere d’inverisimiglianza, di beffa. Non ci crediamo. E dove non c’è fede, non ci può essere commozione.

Ma se ci volgiamo alle parti liriche, súbito ci parrà di essere trasportati in un’altra sfera. Sono fra le piú ricche ed ispirate di tutto il teatro euripideo. Come un’azzurra scaturigine alpestre zampilla, dopo la grande scena fra Menelao ed Elena, l’invocazione all’usignolo:

Tu che in fondo a vallèe chiomate d’alberi
abiti, in sedi armoniche,
re d’ogni melodia,
canoro augello, rosignolo flebile,
vieni, ed il canto dalla gola fulvida
sgorghi, compagno alla querela mia.

Ed altri ed altri echi rispondono, in tutto il dramma, a questa voce mirabile.

Sarà, nel terzo stasimo (1455 sg.), la vaga pittura del mare in bonaccia. Saranno, poco dopo (1478 sg.), le gru che d’inverno migrano in Libia: il loro capo è detto pastore, il suo lagno, zampogna: umanizzazione strana, efficace e poetica.

E a un certo punto, la immedesimazione del loro volo col volo delle nuvole, sotto le stelle, assume un tono veramente aereo e musicale: