Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VI.djvu/108

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ELENA 105


O collilunghe aligere,
compagne al corso delle aeree nuvole,
volate fra le Plèiadi
sotto il notturno scintillar d’Oríone.

E, balzato cosí in cielo, il poeta v’indugia. La volta siderea appare sobriamente, come sempre è dell’arte greca, nella invocazione ai Dioscuri. E alla visione siderea, súbito segue una nuova balenante apparizione dell’Oceano. Dice il coro:

Accorrete, di Tíndaro
figli, che in ciel, dei fulgidi
astri sottessi i turbini,
dimora avete, a salvazione d’Elena!
Venite, sopra i glauchi
marosi, e i flutti ceruli
del mar che bianchi spumano,
brezze impetrate prospere
pei nocchieri, da Giove.

Ma la pagina meravigliosa, la gemma del dramma, è il secondo stasimo: vero poemetto, che rievoca il mito di Demetra in cerca della perduta Persèfone. Nell’ultima parte il poeta si apre la via ad una pittura del mundus dionisiaco: nèbridi, fèrule redimite d’ellera, timpani, chiome squassate all’indietro, luna che piove dal cielo il suo fulgore d’argento: motivi prediletti, che vediamo serpeggiare qua e là in altri drammi del poeta, e che trovano il loro pieno, sinfonico svolgimento, ne Le Baccanti. Ma specialmente ammirevole è la prima parte. La visione della Dea che va errando per tutta la terra, e si abbatte infine, prostrata, sopra una vetta alpestre, fra boscaglie e rupi aspre di ghiaccio, è tra le cose mirabili della poesia greca.