Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VI.djvu/61

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non a chi travagliò lode ne spetta,
ma tutto il generale usurpa il merito,
che la lancia fra mille altri vibrando,
non piú compié di quanto un uomo compie,
e n’ha fama piú grande. E quei che in carica
nelle città solennemente seggono,
credon superïori essere al popolo,
e son gente da nulla. E mille volte
piú assennato di lor sarebbe il popolo,
se con senno congiunto avesse ardire.
Come ora tu col fratel tuo, di boria
gonfi per Troia andate, e pel comando
avuto là, che diveniste grandi
per le fatiche e pei travagli altrui.
Ma io t’insegnerò, ché tu non creda
che un giorno a te l’Idèo Pàride fosse
maggior nemico di quanto or ti sia
Pelèo, se tu non t’allontani súbito
da questa casa, alla malora, e teco
la tua figlia infeconda; e già di casa
la scaccerà, ghermendola alle chiome,
il mio nipote: ché, giovenca essendo
sterile, ch’altre donne partoriscano
non vuol, quando essa non ha figli. E noi,
perché fortuna non l’assiste, privi
starem di figli? O servi, allontanatevi
da lei, ch’io veda chi m’impedirà
di scioglierle le mani. E tu sollèvati,
ché le funi ritorte, io, sebben tremulo,
ti scioglierò. Cosí, tristo ribaldo,
hai le sue mani deturpate? Un bove
forse, un leone trascinar pensavi?
Che la spada impugnasse a far contrasto