Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VI.djvu/7

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4 EURIPIDE


È un trattar da sgualdrine tutte le donne di Sparta.

E se Sparta piange, Argo non ride. Non è facile immaginare una figura meno simpatica di quell’Oreste che proclama d’aver tesa un’insidia contro Neottolemo; e che spera cosí di sopprimerlo. Cinismo che non possiamo non credere figlio di vigliaccheria.

Abbandonandosi alla passione politica, Euripide si è allontanato dalla tradizione, che non dipingeva cosí tristi né Menelao, né Ermione, e, tanto meno, Oreste. Ma non è che questa alterazione danneggi, come pur fu detto, la generale economia artistica del lavoro. L’Andromaca appartiene a quel genere di drammi, e, se si vuole, a quel periodo creativo (l'ultimo) in cui Euripide distacca le figure del mito dalla compagine di eventi in cui le poneva la tradizione, e dalla quale ricevevano lume e ragione, per plasmarle secondo un nuovo modulo, e farle muovere liberamente su la scacchiera, che sempre piú si andava ampliando, di nuove situazioni.

Ora, in questo tipo di dramma, l’unico quesito che in linea critica si dimostri legittimo, è se l’intreccio susciti interesse, e se i caratteri abbiano il rilievo e diano l’illusione della vita.

Diciamo súbito che i caratteri, per quanto odiosi, sono bene osservati e ben resi.

Si veda Ermione. Già le sue prime parole la dipingono per intero. Appare in ricche vesti, e carica di gioielli; e la prima notizia che dà è che non sono doni dello sposo, bensí del padre Menelao. E ricorda che i vasi che servono a lavare i pavimenti della sua casa, sono d'oro. E non si lascia sfuggire veruna occasione di esaltare le proprie ricchezze, e disprezzare la povertà del marito. E al menomo contrasto, porta alle stelle Sparta, e vilipende Ftia. Andromaca glie ne muove aspro rimprovero.