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Pagina:Trattati d'amore del Cinquecento, 1912 – BEIC 1945064.djvu/208

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Tullia. «Amore», si per quanto ho inteso dire da altrui piú volte e si per quella cognizione che io ne abbia, non è altro che un desiderio di goder con unione quello o che è bello veramente o che par bello allo amante.

Varchi. Dottissimamente. E «amare» che è?

Tullia. «Amare» sará conseguentemente un desiderare di godere con unione quello o che è bello veramente o che pare allo amante.

Varchi. Conoscete voi ora la differenza che è, o piú tosto che non è, tra «amore» ed «amare»?

Tullia. Conoscola, e tanto chiaramente che, se la loica insegna di queste cose, ella non dee esser per certo altro che una cosa santa. Ma perciò non posso capire ancora in che modo l’effetto e la cagione possano essere una cosa sola.

Varchi. Sappiatene grado alla loica, che non vi lascia credere il falso. Ma dovereste pur conoscere, mediante la diffinizione dell’uno e dell’altro, che, essendo amendue un medesimo effetto, hanno necessariamente una medesima cagione.

Tullia. Quale è dunque la lor cagione? E di chi sono eglino figliuoli?

Varchi. Non vi darebbe il cuore di apporvi?

Tullia. Mafie no; ché non solamente i poeti, ma i filosofi ancora gli danno tanti nomi, tanti padri e tante madri (benché talvolta non gli diano ancora padre niuno), ne parlano sotto tante favole e velamenti e misteri, che io, per me, non crederei indovinar mai qual fosse il vero o qual voleste intender voi.

Varchi. Dite quello che credete voi, non quello che hanno detto gli altri.

Tullia. Io, per me, credo che la bellezza sia la madre di tutti gli amori.

Varchi. E il padre chi sará?

Tullia. Il conoscimento di essa bellezza.

Varchi. Non vorrá poi la signora Tullia ch’io la lodi! Pur meglio avereste risposto a dire che la bellezza è il padre, ed il conoscimento la madre, come dichiareremo un’altra volta, perché tenghiamo che lo amato, senza alcun dubbio, sia l’agente, e