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è il piú nobile che si possa trovare, quasi alla piú vii cosa che sia. Onde i piú, tosto che sentono dire che uno sia innamorato, ne fanno subito, senza volerne intendere altro, cattivissimo giudicio, avendolo per uomo vizioso, ed almeno lo tengono persona leggiera e di poco cervello; e, tra che il nome del «filosofo» non ha oggidí appresso la maggior parte miglior grazia che si bisogni, se vi si aggiungesse ancora «innamorato», non è uomo di si poco ingegno che non gli paresse di poterlo o riprendere o uccellare giustamente.
Tullia. Egli mi è bene stato detto che voi volete fare il filosofo, ma che voi non séte.
Varchi. Cotestoro bisogna per forza o che siano in equivoco, o che non sappiano che cosa voglia dir propriamente «filosofo».
Tullia. L’averebbono pure a sapere, tale precettore hanno avuto ! e sapendolo io che son donna. Ma che vuol dire che voi fate delle rime, dove si favella d’amore e non avete tanti rispetti? Chi sará di quella natura o avezzo con si fatti costumi, vi uccellerá o riprenderá medesimamente.
Varchi. M’è avenuto forse una volta. E se mi avesse tanto giovato quanto mi ha nociuto!
Tullia. Perché?
V’archi. Percioché chi fa sonetti, oltra le altre cose, è tenuto che non sappia fare altro, e cosí non sia buono a nulla; e lo chiamano «poeta», pensando che questo nome si convenga a chiunque fa versi, e non voglia significare altro che uomo da ciance e da frascherie, per non dire stolto e mentecatto.
Tullia. Perché ne fate adunque?
Varchi. Perché io la intendo altramente. Ed arei voluto imparare a farne; ma, perché conobbi, giá molti anni sono, che non era arte da ogniuno, ricercandosi, oltra lo ingegno ed il giudizio, la cognizione di infinite cose, me ne tolsi giú, e mai non ne feci, poi che gustai quelli di monsignor Bembo, se non per necessitá o per debito. E, se avessi creduto che mi fosse riuscito, non arei guardato al dir delle brigate, come non ho guardato in qualche altra cosa; perché, dove non si offende persona se non se stesso, al detto loro, ciascuno dee poter