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Pagina:Trattati d'amore del Cinquecento, 1912 – BEIC 1945064.djvu/226

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Varchi. Io so che non volete andarne, senza esser menata. La cagione è perché niuna cosa può operare in se stessa, né realmente né spiritualmente, ma ha bisogno di uno agente estrinseco, cioè di uno che sia fuor di lei, e la muova.

Tullia. Credo anche questo. E anche di questo vi domanderei la cagione: se non che dubito di non esservi fastidiosa o parervi troppo importuna; senza che, ce ne ‘andremmo nello infinito.

Varchi. Non dubitate di questo ultimo, ché in tutte le cose si viene ad un capo e primo principio, il quale è noto da per sé; onde, essendo primo, non ha nulla innanzi a sé, ed, essendo noto, non ha bisogno di esser dichiarato. Ed a me non può esser fastidiosa cosa niuna che piaccia a voi. E mai non mi parrá troppo importuno chi cerca di sapere le cagioni delle cose, ma bene è troppo trascurato chi non le cerca.

Tullia. Ditemi, adunque, perché niuna cosa move se stessa.

Varchi. Perché ne seguirebbe uno inconveniente impossibile; e questo è che una cosa medesima sarebbe il movente ed il mosso o, volete dire, quello che fa e quello che è fatto.

Tullia. E perché è questo «inconveniente» ed «impossibile»?

Varchi. Voi mi tentate. Perché una medesima cosa sarebbe in un medesimo tempo in atto ed in potenza: il che è impossibilissimo.

Tullia. Avete mille ragioni. Ma io non so come questa ragione vi valesse nel primo motore.

Varchi. Anche in lui vi varrebbe. Ma non sagliamo ora tanto alto. Concedetemi voi che chiunque opera, opera per qualche fine?

Tullia. Concedolovi.

Varchi. Dico ancora, per una altra proposizione di Aristotele, che «tutte le cose che oprano per qualche fine, tosto che elle hanno conseguito quel fine, si fermano e non operano piú».

Tullia. Par ragionevole, ché altramente si andrebbe in infinito. Ma che fa questo? A me par che dichiate cose vere, ma fuori di proposito

Varchi. Voi ve ne avederete di qui ad un poco. Fa che chi disidera alcuna cosa, ottenuta che egli la ha, non la disidera piú.