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206 | ii - angoscia doglia e pena |
Socrate. E fame far. Biondo. Omai tacer vorrebbe, ma veramente non posso, perch’io temo che ’l contrario effetto in me non adopre la mia lingua. Ma pur ditemi, o maritati: com’io posso nè favellare nè tacere, se non odo la voce di quei che son statti principio del mio ragionamento, che acquetino il cor mio con la sua taciturnitá, facendo fine al suo ragionamento? Imperò, odendo quel che dice il savio vecchio al mio maestro, mi pare che omai gionga al fine del suo ragionamento. Perciò, o voi, lettori miei, aguagliarete le mie parole alle vostre non mortali, ma opre divine; e delle mie passioni pregovi che fatte li immortai trofei alla maritale umilitá, alla mia pazienza ed alli indicibili martiri di questo mio corpo. Imperò, ’nanzi che fosse rotta l’aspra mia pregione, che credete che mi abbia fatto fare? Come dice il savio vecchio, dico di ogni cosa sette para: di affanni, di stenti, di tormenti, di sospiri, di gemiti e di singulti, di mal pasti, di degiuni, di creppacore e di infiniti altri para di malani, li quali lasso ricontar a voi, o maritati. Perché io so che la vostra moglie vi fa fare sette para di pianele, sette para di scarpe, sette para di ligazze, sette para di camise, sette para di sottane, sette para di guardacori, sette para di cambre, sette para di guarneli, sette para di vesture o vòi dire gonne, sette para di manti, sette para di tovaglie di testa, sette para di zagaglie da intrezare le sue trezze, sette para di scufioti, sette para di catenele, sette para di pendenti ed orechini, sette para di corone, nelle quali prega per la tua presta morte, overo per tua pregionia, overo per qualche altra disgrazia, accioché ella possa satisfarsi in ciascuno apetito: perciò vi fa fare le tante mercanzie, li tanti bazzari di trafighi. Altro non dico, perché non vi è baro al mondo, col quale non abbiate avuto a far facende, fatte fare ancora li stocchi, le usure, li prestiti non solo sette volte, ma ancora sette milliara di volte. Deh, maritati!