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di Rimini e le campagne dei Malatesta (marzo 3); i quali da qualche anno aveano giá perduto l’intrepido Malatestino dell’occhio. Non minore inimico suscitossi allora contro i guelfi; e fu il vescovo di Arezzo Guido Tarlati di Pietramala (aprile 14), cui gli aretini vollero signore non solo della loro cittá, ma eziandio dell’aretina contea (luglio 6). Il fratello di esso Pier Saccone di Pietramala non era men valoroso: ed entrambi condussero Arezzo ad alto segno di gloria e di dominazione. In quella etá Giovanni di Virgilio scrisse a Dante in Ravenna un’egloga latina: — e perché mai, — gli diceva, — perché le altissime cose che tu canti, o almo poeta, dovrai cantarle sempre in volgare? Solo il volgo potrá dunque goder del tuo stile, né i dotti leggeranno di te nulla che fosse dettato in lingua piú nobile? Gli egregi fatti della nostra etá resteranno senza poeta? Rammentati, o sacro ingegno, la morte di Arrigo di Lucemburgo; rammentati la vittoria di Cane Scaligero sul padovano, e come Uguccione della Faggiola disfogliò il fiordaliso: rammentati le armate di Napoli e i monti combattuti della Liguria: vi ha egli forse al canto argomenti piú acconci di questi? Ma innanzi ogni altra cosa non indugiare, o maestro, di venirne a Bologna per prendervi la corona poetica dell’alloro. —

Ben dovè Dante sorridere per uno zelo si poco saggio, quantunque così affettuoso. In una seconda egloga narrava Giovanni di Virgilio grandissimo il piacere dei bolognesi del rivedere nella cittá Dante Alighieri; e certamente, quali sono essi così gentili e cortesi, non avrebbero posto mente a ciò che della maggior parte dei loro cittadini dicevasi t\g\Y Inferno. — Che se verrai, — soggiungeva Giovanni all’Alighieri, — potrò farti conoscere i versi del nostro Mussato: ma Guido tuo non patirá che tu avessi a lasciar Ravenna, o la bella pineta che la cinge in sul lido adriatico. — A si amichevoli voti replicò Dante con altre due egloghe latine, ove finse di convenire a consiglio col Perini e col de Milottis. Al primo di essi diè il nome di Melibeo, all’altro di Alfesibeo; chiamando loia Guido V Novello, e Mopso Giovanni di Virgilio, e Titiro sé medesimo. — Glorioso invero e piacevole a Dante Alighieri