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la vita italiana 297


limpidezza; pareva ne venisse un profumo di onestà incontestabile. Nel contemplarlo, egli provava un senso di arcana dolcezza, quasi di corrispondente affetto. Ore brevi, bensì, ma tutte impresse da un tenero commovimento, ore fuggevoli che sorgono qualche volta nella vita dei giovani non del tutto miscredenti alla fede del cuore, in cui si frammischia alla visione dell’amore la visione dell’ideale, ore che Patrizio ricordò poi molte volte nei giorni della colpa, nei giorni dello sconforto, quando l’immagine svelata della scrivente gli riapparve col più inestinguibile e doloroso desiderio.

Patrizio di Collalto era buono. Le irregolarità della sua focosa giovinezza non erano discese al grado di basse abitudini. Benchè ardente ai piaceri della vita, non poteva dirsi corrotto, nè il malvagio cinismo della scostumatezza era riuscito a penetrargli in quel sancta sanctorum che abbiamo tutti in fondo all’essere nostro ein cui s’agita la più o meno ascoltata idea del bene.

Infiammato nel suo intimo dalle idee moderne, ma poco battagliero di natura, egli, dopo aver preso ad un tempo la laurea di diritto e di belle lettere, si sottraeva energicamente a qualunque incarico nelle cose pubbliche, occupandosi invece moltissimo, in privato, col soccorso e coll’opera, della miseria e delle sue fonti, dedicando poi le ore di svago alla sua coltura artistica che una genialità non comune aveva portato ad alto grado. Gentiluomo perfetto, si serbava Îigio a certe leggi tradizionali di cavalleria verso la donna, oggi in grande disuso. Gli uomini lo ritenevano molto originale.

Dopo un mese di continue e inutili ricerche, Patrizio cominciò a dimenticare la sua amabile sconosciuta, e come sua madre, nella brama di ‘vedersi risorgere d’intorno una famiglia gli andava suggerendo qualche piano di matrimonio, egli ripensò con maggiore intensità a Clara, anzi l’immagine classica di lei venne cancellando, grado a grado, la lirica e ormai blanda parvenza della misteriosa scrivente.

In sul finire dell’inverno vi fu una festa all’ambasciata d’Inghilterra.

Patrizio di Collalto fu dei primi a ballare colla signorina di Samoclevo, fulgida di bellezza nel suo vestito di crespo viola. Quando sedettero insieme, il giovine le domandò:

— È proprio vero, donna Clara, che il suo ideale è un devoto cavaliere?

— Lo è, principe.

— e... null’altro?

— Null’altro... Sta tutto in quelle parole.

Patrizio rimase alcun tempo pensoso, poi ripigliò:

— Mi consenta una domanda molto, molto indiscreta... Lo ha mai incontrato nella vita?...

— È più che indiscreta, la sua domanda, Collalto... Io non risponderò.

— Perchè ella è sincera, donna Clara, e non può dire di no. È per questo che non risponde.

— E se l’avessi incontrato, che importerebbe?

— Egli l’avrebbe riconosciuta per la sua dama...

— Non mi avrebbe riconosciuta perché io non mì tradirei mail...

— Allora sarà molto pericoloso l’avventurarsi in questo mare...

— Crede?...

Era in quella domanda una tale seduzione, che Patrizio, ne rimase assai turbato.

— Lo credo perchè avrei paura, mormorò egli.

Il colloquio fu interrotto da Teodora di Fancigy che aveva ballato e che venne a sedere accanto a loro. Vestita di velluto e adorna di perle, la fulva signora appariva un po’ sbattuta e languida, quanto Clara era sfolgorante di sana e superba bellezza giovanile: entrambe possedevano un fascino e Collalto ne sentiva nell’anima l’inquietante diversità.

Avete veduto Luisa Hercolani? domandò Teodora. — Ha voluto venire a questo ballo ad ogni costo, poverina. E com’è pallida! Ci voleva un po’ di colore su quelle guancie sparute.... sembra un giglio così tutta bianca...

To non le ho ancora parlato, disse Collalto, guardando in fondo alla sala ove la faniulla sedevaaccanto a Miss Aberdeen. — Dio buono! sembra un fantasma!

— Una vera apparizione, soggiunse, senza scomporsi, Clara, il cui volto, sempre suffuso d’una bella tinta rosea, sembrava tagliato nel marmo di Paros.

— Se almeno potesse aiutarsi un pochino!

concluse pietosamente il principe. n voi contessa, vi divertite?

— Non molto: sapete che il ballo mi dà