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Il sacrificio di Ieronima 15


— «Oh no. Parto da questa casa... parto da un passato che più non torna...», e la sua voce si soffocava.

— «Dove va?»

— «Da mio fratello»

— «Ha famiglia suo fratello?»

— «Ha moglie e sel figliuoli.»

— «Che fa?»

— «È impiegato al tribunale.»

— «Ella vivrà dunque con lui?»

— «Sì, vivrò con lui.»

Vi fu una breve sosta, nel rapidissimo dialogo, indi il giovane chiese più lentamente:

— «E la musica?»

Ieronima fece un atto vago, di dolore.

— «E il pianoforte?»

— «L’ho mandato laggiù... lo prendo meco.»

— «Scriverà ancora, spero...»

— «Non so, conte. Non credo. Ella ha compiuto qualche nuovo lavoro?»

— «Sì, una piccola elegia. Gliela portavo...».

—.«Grazie!» mormorò la fanciulla, con una superabile commozione. «Non ho nemmeno più una seggiola da offrirle!..» E avvicinatasi alla finestra che dava sopra un piccolo giardino, e preso con mano tremante il rotolo ch’egli le porgeva, lo aperse e scorse collo sguardo, adagio, adagio il manoscritto.

— «In do diesis minore!'» esclamò ella, «era il tono prediletto di mio padre.»

— «L’ho scelto apposta, Ieronima.»

Ella sollevò verso di lui gli occhi ove una riconoscenza appassionata ardeva sotto il velo delle lagrime.

Il giovane, appoggiato al davanzale della finestra, la contemplava a capo chino, con grande compassione.

Il conte Wilmos Kemeny era un patrizio ungherese che una sorella sposata a Firenze richiamava sei mesi dell’anno presso di sè. Cul- tore fervidissimo delle Arti, specie della musica, egli aveva scelto a suo maestro di contrappunto il padre di Ieronima, s’era fatto uno scrittore elegante e si compiaceva di passare qualche ora della settimana col vecchio professore, studiando i classici. Senza accorgersi, egli era diventato familiare in quella casa modesta, ove trovava nel padre un amico d’Arte, nella figliuola un’intelligente ammiratrice del suo talento, in entrambi anime nobilissime. Convinto della profonda rettitudine del suo