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948 la storia di un ciliegio

acute e un’ardente brama di vivere faceva vibrare tutto il mio piccolo essere, mi scricchiolavano le ossa, soffrivo atrocemente.... poi, quasi inconscio di me, mi trovai a fior di terra, in forma di tenero e pallido germoglio. Era una notte placida, illuminata dalla luna, e mi parve bello il mondo; ancor più incantevole lo trovai l’indomane quando spuntò l’aurora e una grossa goccia di rugiada mi dissetò. Un grazioso biancospino fioriva sopra di me, un olezzo amarognolo si diffondeva in quel sereno giorno di maggio, danzavano volubilmente i moscerini al sole, tutto era festa nella natura. Il pensiero della mia piccolezza mi tenne qualche tempo in angustia. Stavo zitto, tutto raccolto in me stesso, or temendo, ora sperando, ma i dubbi penosi onde fu torturata la mia giovinezza, non m’impedirono di crescere rapidamente. In breve divenni un arboscello e sorpassai la siepe, quantunque la terra arida ed infeconda, ov’ero caduto, mi desse uno scarso nutrimento, quantunque la polvere della via impedisse alle mie foglioline di respirar bene.

Quale felicità la prima volta che mi fu concesso di fiorire!

I miei fiorellini bianchi civettavano teneramente nell’aria imbalsamata ed io ne sbizzarrivo tutto dalla gioia. L’anno seguente m’accorsi d’essere cresciuto assai e il biancospino che m’era stato sempre fedele amico, cominciò a mostrarmisi meno benevolo non solo, ma manifestò anche certi indizi di noia per la mia vicinanza. Aveva inteso, quell’originale, che nella Cina i fiori di ciliegio sono molto apprezzati e temeva che le romantiche forestiere, le bionde misses, passando per quella via, non mi preferissero a lui, per un capriccio della moda.

La sorte ci separò tuttavia fra breve e io fui il più fortunato. Le mie foglie, vestite colla divisa rossa dell’autunno, s’erano appena involate cogli aquiloni di novembre quando un bel dì, mentre la via era ancor deserta, mi si presentò dinnanzi un omiciattolo sciancato e munito d’uno zappone. Egli scavò un poco e con grande cautela il terreno intorno a me, poi mi svelse barbaramente e mi caricò in ispalla, colle radici al vento. Fino a quel giorno non avevo appartenuto a nessuno: mi accorsi subito d’aver trovato un padrone. Dopo un lungo cammino giungemmo dinnanzi ad un cortile, nel centro della città. Il mio omino aperse il portone, entrò e, messomi in un canto ad aspettare, si dette con alacrità a scavare la buca destinatami. Appoggiato in qualche modo a un vecchio melo e mezzo intirizzito, stavo osservando con raccapriccio la mia nuova dimora.

Muraglie altissime chiudevano da tre lati il tetro cortile, sul quarto s’innalzava un edifizio prosaico che pareva toccasse il cielo,