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Pagina:Turco - La storia d'un ciliegio.djvu/31

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la storia di un ciliegio 949

dal portone all’entrata di quello correvano due siepi d’insipidi arbusti verdeggianti, certi arbusti che hanno da vestirsi anche nell’inverno e non servono a nulla. A destra e sinistra di essi, chiusi in quella prigione, v’erano due piccoli frutteti, in uno dei quali mi fu concesso il posto d’onore.

Compiuto il lavoro, il brutto omino adagiò amorevolmente le mie radici, pressochè gelate, sul fondo della buca, vi buttò alcune palate di terra, aggiunse uno strato di guano, di quello che fa venire il caldo nelle ossa, poi dell’altra terra.... speravo fosse finita, ma no, mi fu forza accettare la compagnia d’un palo, un palo secco e stupido che doveva star meco a guarentigia della mia snellezza. Avevo ben altro in mente che di diventar gobbo, povero il mio padrone!

Cessato il primo disgusto, compresi subito che avevo cambiato in meglio. Non era più il suolo ghiaioso dei miei giovani anni ove le mie radici avevano conosciuto gli stenti e il digiuno, era un fertile umo ov’esse potevano stendersi e serpeggiare voluttuosamente, suggendo con avida forza la vita. Di stirpe sana e vigorosa, energico per natura, io profittavo con delizia di quel favorevole elemento; e appena mi sentii sicuro dell’esistenza, incominciai ad occuparmi con interesse de’ miei compagni. Benchè di famiglie diverse appartenevano tutti alla mia casta, chi aveva conosciuto la miseria, chi la lieta fortuna; in coro rimpiangevano le soddisfazioni dell’aperta campagna.

Il comune malcontento li aveva resi momentaneamente amici, solo un pesco sbilenco che proteggeva dalle intemperie la gronda d’un tetto, faceva sdegnosamente da sè, vantandosi che la primavera lo adornasse d’un velo di rosa, mentre, a quell’epoca, il nostro vestito non somigliava che alla neve. Questa sua debolezza destava in molti un vero scoppio d’ilarità e anzi un giovane pruno di Marsiglia, d’indole assai leggera, se la rideva tanto, scrollando i rami, che il terreno sotto restava tutto bianco de’ suoi fiori e le susine andavano perdute. Anch’io mettevo il pesco in ridicolo, ma in fondo la vanità mi torturava colle sue paure. Temevo d’essere un ciliegio selvatico e certe voci vaghe udite nell’infanzia, la mia indisciplinatezza nativa, e il maldicente mormorio degli arbusti verdi da me scoperto origliando, una notte che nessuno poteva dormire dalla sete, tutto mi confermava nel mio penoso sospetto. Parlando di me, dicevano quei malcreanzati che le mie frutta eran roba da passerotti....

Io tremavo dalla collera, tutto avrei dato piuttosto che conceder loro la compiacenza di vedermi carico di ciliegine nere, aspre, ordinarie.... volentieri mi sarei lasciato mutilare dalla tenaglia dell’orticultore.