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950 la storia di un ciliegio


Eppure, ancor quell’anno, ricco di linfa qual’ero, avevo messo un bel raggio di fiori e le minuscole frutta verdi pendevano a ciocche a ciocche dai miei rami.

Quanti sarcasmi e quali sofferenze! Il pesco poi non la finiva più. Nei peschi vi fu sempre e sempre vi sarà un nascosto veleno.

Una solenne grandinata mi liberò dall’impaccio, troncando la lite. Fu così fitta e così prolungata che i nostri rami rimasero brulli come in inverno. Piangeva il padrone le deluse speranze, piangevano i compagni e quei verdi fannulloni della siepe che avevano le membra flagellate, ma io ero allegro in tanta sventura. Bene o male lo scopo era raggiunto, le mie umili ciliegine giacevano abbattute al suolo. Che cosa non si sopporterebbe per la vanità! L’unico rimpianto ch’io ebbi fu per un delicatissimo convolvolo che s’era attorcigliato timidamente al mio tronco e che non sopravvisse all’eccidio. Era un esserino innocuo e debole e gli volevo bene assai.

Rassicurato intorno alle mie orgogliose apprensioni, impiegai tutte le forze che mi restavano a rivestirmi di verde, e crebbi ancora sottile ed elastico bensì ma vigoroso. Avidi di sole, i miei ramoscelli si protendevano ansiosamente verso il cielo, cercandone i raggi, cercando visioni dilettose d’orizzonti e di campagne. Non ero infelice perchè sempre mi sorreggeva l’intimo presagio di migliori destini. Assorto in un continuo vagheggiamento di gloria, tolleravo con magnanimità lo spirito rozzo dei compagni tutti dediti a materiali aspirazioni, la volgarità del mio bruttissimo padrone, l’andirivieni di professori, maestre e scolarine che passavano dal cortile per recarsi alla scuola magistrale femminile della quale egli era bidello. Solo una volta m’inquietai con una bruna fanciulla che s’era fatto lecito di scrivere sul mio bel tronco liscio il nome del suo ideale che, per giunta, si chiamava Prosdocimo! Costui, un giovane letterato che insegnava, credo, nell’ultima classe, l’arte della corrispondenza galante, scoperse subito la dimostrazione segreta e preziosa e, per emulare la dolce amica, v’incise sotto, ancor più profondamente, la parola “amore.”

Io feci ogni sforzo onde venisse cancellato quello sconcio dall’immacolata mia corteccia ma nulla valse a distruggerla fuorchè la fine. Era bensì scomparso il nome ma rimaneva una brutta cicatrice e sempre si leggeva “amore.”

Vissi alcuni mesi così in una brama infinita di cose nuove: pensavo alla poesia dell’Oriente che fu la patria dei miei padri, pensavo a grandezze sconosciute.