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discorso sul testo del poema di dante. | 157 |
mente stimati da chi guarda il Genio diviso dall’uomo, e l’uomo, dalle fortune della vita e de’ tempi. I moti dell’intelletto seno connessi a quelle passioni che di e notte, e d’ora in ora, e di minuto in minuto, alterate da nuovi accidenti esterni, provocano, frenano e perturbano il vigore d’azione e di volontà in tutti i viventi. Nè per essere taluni individui dotati di forti facoltà intellettuali, son essi privilegiati dalle infermità e dalle disavventure che spesso attraversano e indugiano, chi più, chi meno, ma tutti, nel sentiero al quale ciascheduno è sospinto o dalla natura o dal caso. Alcuni ostacoli irritano, e invigoriscono gl’ingegni arditissimi a sormontarli; ed altri li prostrano. Le vicissitudini pubbliche dell’Italia, le ire delle parti, il dolore dell’esilio, e la avidità di vendetta e di fama erano sproni al Poema di Dante. Ma le case signorili dov’ei rifuggivasi a continuarlo, lo stringevano ad interromperlo; perchè erano ospizj per lui di «turpezza; le Corti massimamente d’Italia1.» — «Andava, mendicando,» e scrivendo — urget me rei familiaris angustia, ut hæc et alla utilia reipullicæ derelinquere oparteat2 — «e sono apparito agli occhi a molti che forse per alcuna fama in altra forma m’aveano immaginato; nel cospetto de’ quali non solamente mia persona inviliò, ma di minor pregio si fece ogni opera si già fatta come quella che fosse a fare.» — Così con la vergogna, contro alla quale gli uomini alteri sono più pusillanimi, smarriscono forza e coraggio, congiuravano spesso gli assalti e gli assedi della povertà:
Pectora vostra duas non admittentia curas. —
Sed Vatem egregium cui non sit publica vena,
Qui nihil expositum soleat deducere, nec qui
Communi feriat Carmen triviale moneta:
Unch, qualem nequeo monstrare et sentio tantum,
Anxietate carens animus facit, omnis acerbi
Impatiens, cupidus sylvarum, aptusque bibeìidis
Fontibus Aoniduni. Ncque enim cantare sub antro
Pieryo, thyrsumve potest contingere sana
Panperlas, atque aeris inops, quo nocte, dieque
Corpus eget.
I varj modi co’ quali la fortuna agitatrice della nostra natura favorì indugiò i lavori de’ grandi ingegni in ogni arte sono per avventura le norme meno ingannevoli a stimare le forze divine, se divine pur sono, o le umane, com’io sono costretto a presumerle, della mente.
XXV. Ed ora che la questione non trovasi, a quanto parmi,
impedita dalla autorità di molte e diverse opinioni, procederò