Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/625

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presso l’ornamento della porta a San Piero Gattolini, opere tutte grandi e sopra le forze mie. E, che fu peggio, avendomi questi favori tirato addosso mille invidie, circa venti uomini, che m’aiutavano far le bandiere e gl’altri lavori, mi piantarono in sul buono, a persuasione di questo e di quello, acciò io non potessi condurre tante opere e di tanta importanza. Ma io, che aveva preveduto la malignità di que’ tali, ai quali avea sempre cercato di giovare, parte lavorando di mia mano giorno e notte, e parte aiutato da pittori avuti di fuora, che m’aiutavano di nascoso, attendeva al fatto mio et a cercare di superare cotali difficultà e malivoglienze con l’opere stesse. Il qual mentre Bertoldo Corsini, allora generale proveditore per sua eccellenzia, aveva rapportato al Duca che io aveva preso a far tante cose, che non era mai possibile che io l’avessi condotte a tempo, e massimamente non avendo io uomini et essendo l’opere molto a dietro; per che, mandato il Duca per me e dettomi quello che avea inteso, gli risposi che le mie opere erano a buon termine, come poteva vedere sua eccellenzia a suo piacere, e che il fine loderebbe il tutto; e partitomi da lui, non passò molto che occultamente venne dove io lavorava, e vide il tutto, e conobbe in parte l’invidia e malignità di coloro che sanza averne cagione mi pontavano addosso. Venuto il tempo che doveva ogni cosa essere a ordine, ebbi finito di tutto punto e posti a’ luoghi loro i miei lavori, con molta sodisfazione del Duca e dell’universale. Là dove quelli di alcuni che più avevano pensato a me, che a loro stessi, furono messi su imperfetti. Finita la festa, oltre a’ quattrocento scudi che mi furono pagati per l’opere, me ne donò il Duca trecento, che si levarono a coloro che non avevano condotto a fine le loro opere al tempo determinato, secondo che si era convenuto d’accordo. Con i quali avanzi e donativo maritai una delle mie sorelle, e poco dopo ne feci un’altra monaca nelle Murate d’Arezzo, dando al monasterio oltre alla dote, o vero limosina, una tavola d’una Nunziata di mia mano, con un tabernacolo del Sacramento in essa tavola accomodato, la quale fu posta dentro nel loro coro, dove stanno a ufiziare. Avendomi poi dato a fare la Compagnia del Corpus Domini d’Arezzo la tavola dell’altar maggiore di San Domenico, vi feci dentro un Cristo deposto di croce, e poco appresso per la Compagnia di San Rocco cominciai la tavola della loro chiesa in Firenze. Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del duca Alessandro onore, nome e facultà, fu il povero signore crudelmente ucciso, et a me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo favore, promettendo dalla fortuna. Per che mancati, in pochi anni, Clemente, Ipolito et Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere più seguitare la fortuna delle corti, ma l’arte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de’ Medici nuovo duca. E così tirando innanzi in Arezzo la detta tavola, e facciata di San Rocco con l’ornamento, mi andava mettendo a ordine per andare a Roma, quando per mezzo di Messer Giovanni Pollastra, come Dio volle (al quale sempre mi sono raccomandato e del quale riconosco et ho riconosciuto sempre ogni mio bene), fu’ chiamato a Camaldoli, capo della congregazione camaldolense, dai padri di quell’eremo a vedere quello che disegna-