Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/624

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feci il cartone e dopo abbozzai di colori la tela, che era lunga dieci braccia. Avendo poi a partire il cardinale per la volta d’Ungheria, fattomi conoscere a papa Clemente, mi lasciò in protezione di Sua Santità che mi dette in custodia del signor Ieronimo Montaguto suo maestro di camera, con lettere che volendo io fuggire l’aria di Roma quella state, io fussi ricevuto a Fiorenza dal duca Alessandro, il che sarebbe stato bene che io avessi fatto; perciò che volendo io pure stare in Roma, fra i caldi, l’aria e la fatica, amalai di sorte, che per guarire fui forzato a farmi portare in ceste ad Arezzo. Pure, finalmente guarito intorno alli dieci del dicembre vegnente, venni a Fiorenza dove fui dal detto Duca ricevuto con buona cera, e poco appresso dato in custodia al magnifico Messer Ottaviano de’ Medici, il quale mi prese di maniera in protezzione, che sempre, mentre visse, mi tenne in luogo di figliuolo; la buona memoria del quale io riverirò sempre e ricorderò come d’un mio amorevolissimo padre. Tornato dunque ai miei soliti studii, ebbi comodo, per mezzo di detto signore, d’entrare a mia posta nella sagrestia nuova di San Lorenzo, dove sono l’opere di Michelagnolo, essendo egli di quei giorni andato a Roma, e così le studiai per alcun tempo con molta diligenza così come erano in terra. Poi, messomi a lavorare, feci in un quadro di tre braccia un Cristo morto, portato da Niccodemo, Gioseffo et altri alla sepoltura, e dietro le Marie piangendo. Il quale quadro, finito che fu, l’ebbe il duca Alessandro, con buono e felice principio de’ miei lavori; perciò che non solo ne tenne egli conto mentre visse, ma è poi stato sempre in camera del duca Cosimo, et ora è in quella dell’illustrissimo Principe suo figliuolo, et ancora che alcuna volta io abbia voluto rimettervi mano per migliorarlo in qualche parte, non sono stato lasciato. Veduta dunque questa mia prima opera, il duca Alessandro ordinò che io finissi la camera terrena del palazzo de’ Medici, stata lasciata imperfetta, come s’è detto, da Giovanni da Udine. Onde io vi dipinsi quattro storie de’ fatti di Cesare: quando, notando, ha in una mano i suoi comentarii et in bocca la spada; quando fra abruciare i scritti di Pompeo, per non vedere l’opere de’ suoi nemici; quando, dalla fortuna in mare travagliato, si dà a conoscere a un nocchieri; e finalmente il suo trionfo, ma questo non fu finito del tutto. Nel qual tempo, ancor che io non avessi se non poco più di diciotto anni, mi dava il Duca sei scudi il mese di provisione, il piatto a me, et un servitore, e le stanze da abitare, con altre molte commodità. Et ancor che io conoscessi non meritar tanto a gran pezzo, io facea nondimeno tutto che sapeva con amore e con diligenza; né mi pareva fatica dimandare a’ miei maggiori quello che io non sapeva, onde più volte fui d’opera e di consiglio aiutato dal Tribolo, dal Bandinello e da altri. Feci adunque in un quadro alto tre braccia esso duca Alessandro, armato e ritratto di naturale, con nuova invenzione et un sedere fatto di prigioni legati insieme e con altre fantasie. E mi ricorda che oltre al ritratto, il quale somigliava, per far il brunito di quell’arme bianco, lucido e proprio, che io vi ebbi poco meno che a perdere il cervello, cotanto mi affaticai in ritrarre dal vero ogni minuzia. Ma disperato di potere in questa opera accostarmi al vero, menai Iacopo da Puntormo, il quale io per la sua molta virtù osservava, a vedere l’opera e consigliarmi; il quale, veduto il quadro e conosciuta la mia passione, mi disse amorevolmente: "Figliuol mio, insino a che queste arme vere e lustranti stanno a canto a questo quadro, le tue ti parranno sempre dipinte, perciò che se bene la biacca è il più fiero colore che adoperi l’arte, e nondimeno più fiero e lustrante è il ferro. Togli via le vere e vedrai poi che non sono le tue finte armi così cattiva cosa, come le tieni". Questo quadro, fornito che fu, diedi al Duca, et il Duca lo donò a Messer Ottaviano de’ Medici, nelle cui case è stato insino a oggi, in compagnia del ritratto di Caterina allora giovane sorella del detto Duca e poi Reina di Francia, e di quello del magnifico Lorenzo Vecchio. Nelle medesime case sono tre quadri pur di mia mano e fatti nella mia giovanezza. In uno Abramo sacrifica Isac, nel secondo è Cristo nell’orto, e nell’altro la cena che fa con gl’Apostoli. Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocata di tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le più volte, le speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nell’essere da qualche cosa, principalmente confidarsi. Dopo quest’opere, veggendo io che il Duca era tutto dato alle fortificazioni et al fabricare, cominciai, per meglio poterlo servire, a dare opera alle cose d’architettura, e vi spesi molto tempo. Intanto, avendosi a far l’apparato per ricevere l’anno 1536 in Firenze l’imperatore Carlo Quinto, nel dare a ciò ordine il Duca comise ai deputati sopra quella onoranza, come s’è detto nella vita del Tribolo, che m’avessero seco a disegnare tutti gl’archi et altri ornamenti da farsi per quell’entrata. Il che fatto, mi fu anco, per beneficarmi, allogato, oltre le bandiere grandi del castello e fortezza, come si disse, la facciata a uso d’arco trionfale, che si fece a San Felice in piazza, alta braccia quaranta e larga venti; et ap-