Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/71

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quanto poté prima se lo levò d’intorno. E così tornato Niccolò ad Arezzo mal contento, conobbe che dove pensava aversi con fatica e spesa allevato un figliuolo, si aveva fatto poco meno che un nimico. Per poter dunque sostentarsi andava lavorando ciò che gli veniva alle mani, sì come aveva fatto molti anni innanzi, quando dipinse, oltre molte altre cose, per la comunità di Monte San Sovino, in una tela, la detta terra del monte et in aria una Nostra Donna e dagli lati due Santi. La qual pittura fu messa a uno altare nella Madonna di Vertigli, chiesa dell’Ordine de’ monaci di Camaldoli non molto lontana dal Monte, dove al Signore è piaciuto e piace far ogni giorno molti miracoli e grazie a coloro che alla Regina del cielo si raccomandano. Essendo poi creato sommo pontefice Giulio Terzo, Niccolò, per essere stato molto familiare della casa di Monte, si condusse a Roma vecchio d’ottanta anni, e baciato il piede a Sua Santità, la pregò volesse servirsi di lui nelle fabbriche che si diceva aversi a fare al Monte, il qual luogo avea dato in feudo al Papa il signor duca di Fiorenza. Il Papa adunque, vedutolo volentieri, ordinò che gli fusse dato in Roma da vivere senza affaticarlo in alcuna cosa et a questo modo si trattenne Niccolò alcuni mesi in Roma, disegnando molte cose antiche per suo passatempo. Intanto, deliberando il Papa d’accrescere il Monte San Sovino sua patria e farvi, oltre molti ornamenti, un acquidotto, perché quel luogo patisce molto d’acque, Giorgio Vasari, ch’ebbe ordine dal Papa di far principiar le dette fabbriche, raccomandò molto a Sua Santità Niccolò Soggi, pregando che gli fusse dato cura d’essere soprastante a quell’opere; onde, andato Niccolò ad Arezzo con queste speranze non vi dimorò molti giorni che, stracco dalle fatiche di questo mondo, dagli stenti e dal vedersi abandonato da chi meno dovea farlo, finì il corso della sua vita, et in San Domenico di quella città fu sepolto. Né molto dopo Domenico Giuntalochi, essendo morto don Ferrante Gonzaga, si partì di Milano, con intenzione di tornarsene a Prato, e quivi vivere quietamente il rimanente della sua vita; ma non vi trovando né amici, né parenti e conoscendo che quella stanza non faceva per lui, tardi pentito d’essersi portato ingratamente con Niccolò, tornò in Lombardia a servire i figliuoli di don Ferrante. Ma non passò molto che, infermandosi a morte, fece testamento, e lasciò alla sua comunità di Prato diecimila scudi perché ne comperasse tanti beni e facesse un’entrata, per tenere continuamente in studio un certo numero di scolari pratesi, nella maniera che ella ne teneva e tiene alcun’altri, secondo un altro lascio. E così è stato eseguito dagl’uomini della terra di Prato; come conoscenti di tanto benefizio, che invero è stato grandissimo e degno d’eterna memoria, hanno posta nel loro consiglio, come di benemerito della patria, l’imagine di esso Domenico.

FINE DELLA VITA DI NICCOLÒ SOGGI PITTORE