Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/70

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E come egli volle, così fecero a punto gli uomini di detta Compagnia. In quel mentre Domenico Giuntalochi essendo andato a Roma, fu di tanto benigna la fortuna che, conosciuto da don Martino ambasciatore del re di Portogallo, andò a star seco e gli fece una tela, con forse venti ritratti di naturale, tutti suoi familiari et amici e lui in mezzo di loro a ragionare. La quale opera tanto piacque a don Martino, che egli teneva Domenico per lo primo pittore del mondo. Essendo poi fatto don Ferrante Gonzaga viceré di Sicilia e desiderando per fortificare i luoghi di quel regno d’avere appresso di sé un uomo che disegnasse e gli mettesse in carta tutto quello che andava giornalmente pensando, scrisse a don Martino che gli provedesse un giovane, che in ciò sapesse e potesse servirlo, e quanto prima glielo mandasse. Don Martino adunque, mandati prima certi disegni di mano di Domenico a don Ferrante, fra i quali era un colosseo, stato intagliato in rame da Girolamo Fagiuoli bolognese per Antonio Salamanca, che l’aveva tirato in prospettiva Domenico, et un vecchio nel carruccio disegnato dal medesimo e stato messo in stampa, con lettere che dicono: Ancora imparo; et in quadretto il ritratto di esso don Martino, gli mandò poco appresso Domenico, come volle il detto signor don Ferrante, al quale erano molto piacciute le cose di quel giovane. Arrivato dunque Domenico in Sicilia, gli fu assegnata orrevole provisione e cavallo e servitore a spese di don Ferrante, né molto dopo fu messo a travagliare sopra le muraglie e fortezze di Sicilia, là dove lasciato a poco a poco il dipignere, si diede ad altro, che gli fu per un pezzo più utile, perché, servendosi come persona d’ingegno d’uomini che erano molto a proposito, per far fatiche con tener bestie da soma in man d’altri, e far portar rena, calcina e far fornaci, non passò molto che si trovò avere avanzato tanto che poté comperare in Roma ufficii per duemila scudi, e poco appresso degl’altri. Dopo, essendo fatto guardaroba di don Ferrante, avvenne che quel signor fu levato dal governo di Sicilia e mandato a quello di Milano, per che andato seco Domenico, adoperandosi nelle fortificazioni di quello stato, si fece con l’essere industrioso, et anzi misero che no, richissimo. E, che è più, venne in tanto credito che egli in quel reggimento governava quasi il tutto. La qual cosa sentendo Niccolò, che si trovava in Arezzo già vecchio, bisognoso e senza avere alcuna cosa da lavorare, andò a ritrovare Domenico a Milano, pensando che come non aveva egli mancato a Domenico quando era giovanetto, così non dovesse Domenico mancare a lui, anzi servendosi dell’opera sua là dove aveva molti al suo servigio, potesse e dovesse aiutarlo in quella sua misera vecchiezza. Ma egli si avide con suo danno che gl’umani giudicii, nel promettersi troppo d’altrui, molte volte s’ingannano e che gl’uomini che mutano stato, mutano eziandio il più delle volte natura e volontà. Perciò che arrivato Niccolò a Milano, dove trovò Domenico in tanta grandezza, che durò non picciola fatica a potergli favellare, gli contò tutte le sue miserie, pregandolo appresso che servendosi di lui, volesse aiutarlo. Ma Domenico, non si ricordando, o non volendo ricordarsi con quanta amorevolezza fusse stato da Niccolò allevato, come proprio figliuolo, gli diede la miseria d’una piccola somma di danari e