Pagina:Vasari - Le vite de’ piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 1-2, 1568.djvu/222

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126 PRIMA PARTE

(versione diplomatica)


(versione critica)


furono anco quelle tanto lodate d’Ascesi, delle quali si è di sopra a bastanza favellato; e sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento. Ma per tornare a Napoli, fece Giotto nel Castello dell’Uovo molte opere, e particolarmente la capella che molto piacque a quel re, dal quale fu tanto amato, che Giotto molte volte lavorando si trovò essere trattenuto da esso re, che si pigliava a piacere di vederlo lavorare e d’udire i suoi ragionamenti; e Giotto, che aveva sempre qualche motto alle mani e qualche risposta arguta in pronto, lo tratteneva con la mano dipignendo, e con ragionamenti piacevoli motteggiando. Onde dicendogli un giorno il re, che voleva farlo il primo uomo di Napoli, rispose Giotto: "E perciò sono io alloggiato a Porta Reale: per esser il primo di Napoli". Un’altra volta dicendogli il re: "Giotto, se io fussi in te, ora che fa caldo, tralascerei un poco il dipignere", rispose: "Et io certo, s’io fussi voi". Essendo dunque al re molto grato, gli fece, in una sala che il re Alfonso Primo rovinò per fare il castello, e così nell’Incoronata, buon numero di pitture, e fra l’altre della detta sala vi erano i ritratti di molti uomini famosi, e fra essi quello di esso Giotto; al quale avendo un giorno per capriccio chiesto il re, che gli dipignesse il suo reame, Giotto, secondo che si dice, gli dipinse un asino imbastato che teneva ai piedi un altro basto nuovo, e fiutandolo facea sembiante di desiderarlo, et in su l’uno e l’altro basto nuovo era la corona reale e lo scettro della podestà: onde dimandato Giotto dal re, quello che cotale pittura significasse, rispose, tale i sudditi suoi essere e tale il regno, nel quale ogni giorno nuovo Signore si desidera. Partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a Gaeta, dove gli fu forza nella Nunziata far di pittura alcune storie del Testamento Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il ritratto d’esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello. Finita quest’opera, non potendo ciò negare al signor Malatesta, prima si trattenne per servigio di lui alcuni giorni in Roma, e di poi se n’andò a Rimini, della qual città era il detto Malatesta signore, e lì nella chiesa di S. Francesco fece moltissime pitture, le quali poi da Gismondo figliuolo di Pandolfo Malatesti, che rifece tutta la detta chiesa di nuovo, furono gettate per terra e rovinate. Fece ancora nel chiostro di detto luogo all’incontro della facciata della chiesa in fresco l’istoria della beata Michelina, che fu una delle più belle ed eccellenti cose che Giotto facesse già mai, per le molte e belle considerazioni che egli ebbe nel lavorarla; perchè oltr’alla bellezza de’ panni e la grazia e vivezza delle teste che sono miracolose, vi è, quanto può donna esser bella, una giovane, la qual per liberarsi dalla calunnia dell’adulterio, giura sopra un libro in atto stupendissimo, tenendo fissi gl’occhi suoi in quelli del marito, che giurare la facea per diffidenza d’un figliuolo nero partorito da lei, il quale in nessun modo poteva acconciarsi a credere che fusse suo. Costei, sì come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso, fa conoscere con la pietà della fronte e degli occhi a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenza e semplicità sua, et il torto che se le fa, facendola giurare, e publicandola a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quello ch’egli espresse in un infermo di certe piaghe: perchè tutte le femmine che gli sono intorno, offese dal puzzo, fanno certi storcimenti schifi i più graziati del mondo. Li scorti poi, che in un altro quadro si veggiono fra una