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132 PRIMA PARTE

(versione diplomatica)


(versione critica)


con le proprie parole appunto di esso Franco, acciò con la narrazione della novella si vegghino anco alcuni modi di favellare e locuzioni di que’ tempi. Dice dunque in una, per mettere la rubrìca: A Giotto gran dipintore è dato un palvese a dipignere da un uomo di picciol affare. Egli facendosene scherne, lo dipigne per forma che colui rimane confuso.

NOVELLA "Ciascuno può avere già udito chi fu Giotto, e quando fu gran dipintore sopra ogn’altro. Sentendo la fama sua un grossolano, et avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere un suo palvese, subito n’andò alla bottega di Giotto avendo chi gli portava il palvese drieto; e giunto dove trovò Giotto, disse: "Dio ti salvi, maestro: io vorrei che mi dipignessi l’arme mia in questo palvese". Giotto considerando e l’uomo e ’l modo, non disse altro se non: "Quando il vuo’ tu?" e quel glielo disse. Disse Giotto: "Lascia far me". E partissi. E Giotto essendo rimaso, pensa fra se medesimo: "Che vuol dir questo? sarebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere. E costui che ’l reca è un omiciatto semplice, e dice ch’io gli facci l’arme sua, come se fosse de’ Reali di Francia. Per certo io gli debbo fare una nuova arme". E così pensando fra se medesimo, si recò inanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e così fece. La quale dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, et una lancia. Giunto il valente uomo, che non sapea chi si fusse, fassi innanzi e dice: "Maestro, è dipinto quel palvese?". Disse Giotto: "Sì bene: va, recalo giù". Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto: "Oh che imbratto è questo che tu m’hai dipinto?". Disse Giotto: "E’ ti parrà ben imbratto al pagare". Disse quegli: "Io non ne pagherei quattro danari". Disse Giotto: "E che mi dicestù ch’io dipignessi?". E quel rispose: "L’arme mia". Disse Giotto: "Non è ella qui? mancacene niuna?". Disse costui: "Ben istà". Disse Giotto: "Anzi sta male, che Dio ti dia, e dèi essere una gran bestia, che chi ti dicesse, ’chi se’ tu’, appena lo sapresti dire; e giugni qui, e di’: ’dipignimi l’arme mia’. Se tu fussi stato de’ Bardi, sarebbe basto. Che arme porti tu? di qua’ se’ tu? chi furono gl’antichi tuoi? Deh, che non ti vergogni? Comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d’arma, come stu fussi Dusnan di Baviera. Io t’ho fatta tutta armadura sul tuo palvese: se ce n’è più alcuna, dillo, et io la farò dipignere". Disse quello: "Tu mi di’ villania, e m’hai guasto un palvese". E partesi, e vassene alla Grascia, e fa richieder Giotto. Giotto compare, e fa richieder lui, adomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni, gli ufficiali, chè molto meglio le dicea Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo così dipinto, e desse lire sei a Giotto, però che gl’aveva ragione. Onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu prosciolto. Così costui, non misurandosi, fu misurato."

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta, in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore. Potrei molte altre burle fatte da Giotto e molte argute risposte raccontare, ma voglio che queste, le quali sono di cose pertinenti all’arte, mi bast