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508 SECONDA PARTE

tanto gli arebbe la ricchezza chiuso il camino da venire eccellente per la virtù quanto glielo aperse la povertà e ve lo spronò il bisogno, disiderando venire da sì misero e basso grado, se e’ non poteva al sommo e supremo, ad uno almeno dove egli avesse da sostentarsi. Per questo non si curò egli mai di freddo, di fame, di disagio, di incomodità, di fatica, nè di vergogna, per potere vivere un giorno in agio e riposo; dicendo sempre, e quasi in proverbio, che dopo il cattivo tempo è necessario che e’ venga il buono: e che quando è buono tempo si fabricano le case per potervi stare al coperto quando e’ bisogna. Ma perchè meglio si conosca il progresso di questo artefice, cominciandomi dal suo principio dico, secondo la publica fama, che nella città di Perugia nacque ad una povera persona da Castello della Pieve, detta Cristofano, un figliuolo che al battesimo fu chiamato Pietro. Il quale allevato fra la miseria e lo stento, fu dato dal padre per fattorino a un dipintore di Perugia, il quale non era molto valente in quel mestiero, ma aveva in gran venerazione e l’arte e gli uomini che in quella erano eccellenti. Nè mai con Pietro faceva altro che dire di quanto guadagno et onore fusse la pittura a chi ben la esercitasse. E contandoli i premii già delli antichi e de’ moderni, confortava Pietro a lo studio di quella. Onde gli accese l’animo di maniera che gli venne capriccio di volere (se la fortuna lo volesse aiutare) essere uno di quelli. E però spesso usava di domandare qualunque conosceva essere stato per lo mondo, in che parte meglio si facesseno gli uomini di quel mestiero, e particularmente il suo maestro. Il quale gli rispose sempre di un medesimo tenore, cioè che in Firenze più che altrove venivano gli uomini perfetti in tutte l’arti, e specialmente nella pittura, atteso che in quella città sono spronati gl’uomini da tre cose: l’una dal biasimare che fanno molti e molto, per far quell’aria gli ingegni liberi di natura, e non contentarsi universalmente dell’opere pur mediocri, ma sempre più ad onore del buono e del bello, che a rispetto del facitore considerarle; l’altra che a volervi vivere bisogna essere industrioso, il che non vuole dire altro che adoperare continuamente l’ingegno et il giudizio et essere accorto e presto nelle sue cose, e finalmente saper guadagnare, non avendo Firenze paese largo et abbondante, di maniera che e’ possa dar le spese per poco a chi si sta, come dove si truova del buono assai; la terza, che non può forse manco dell’altre, è una cupidità di gloria et onore, che quella aria genera grandissima in quelli d’ogni perfezzione, la qual, in tutte le persone che hanno spirito, non consente che gli uomini voglino stare al pari, non che restare indietro a chi e’ veggono essere uomini come sono essi, benchè gli riconoschino per maestri; anzi gli sforza bene spesso a desiderar tanto la propria grandezza, che se non sono benigni di natura o savi, riescono maldicenti, ingrati e sconoscenti de’ benefizii. È ben vero che quando l’uomo vi ha imparato tanto che basti, volendo far altro che vivere come gl’animali giorno per giorno e desiderando farsi ricco, bisogna partirsi di quivi e vender fuora la bontà delle opere sue e la riputazione di essa città; come fanno i dottori quella del loro studio; perchè Firenze fa de li artefici suoi quel che il tempo de le sue cose: che fatte se le disfa e se le consuma a poco a poco. Da questi avvisi