Pagina:Verne - Il giro del mondo in ottanta giorni, Milano, Treves, 1873.djvu/59

Da Wikisource.

dei cangiamenti di vento nocivi al cammino della nave, del moto scompigliato dei marosi che minacciava di cagionare un accidente alla macchina, insomma di tutte le avarie possibili che, obbligando il Mongolia a poggiare in qualche porto, avrebbero compromesso il suo viaggio?

Niente affatto, o per lo meno, se il nostro gentleman pensava a queste eventualità, non ne lasciava trasparir nulla. Era sempre l’uomo impassibile, il membro imperturbabile del Reform-Club, cui nessun incidente od accidente poteva recar sorpresa. Egli non sembrava più commosso dei cronometri di bordo. Lo si vedeva di rado sul ponte. Non badava gran fatto ad osservare quel mar Rosso, sì fecondo di ricordi, quel teatro delle prime scene storiche dell’umanità. Egli non viaggiava per osservare le curiose città disseminate sulle sue sponde, i cui pittoreschi contorni si delineavano talvolta all’orizzonte. Egli non pensava neanco ai pericoli di quel golfo arabico, del quale gli antichi storici, Strabone, Ariano, Artemidoro, Edrisi, parlarono sempre con ispavento, e sul quale i navigatori non si arrischiavano mai senza aver consacrato il loro viaggio con sacrifizii propiziatorii.

Che faceva dunque quell’originale, imprigionato nel Mongolia? Anzitutto faceva i suoi quattro pasti al giorno, senza che mai nè rollio nè beccheggio potessero sconcertare una macchina così maravigliosamente organizzata. Indi, giuocava al whist.

Sì! egli aveva incontrato dei compagni di giuoco ed appassionati quanto lui: un esattore di tasse che si recava al suo posto a Goa, un ministro, il reverendo Decimo Smith, di ritorno a Bombay, e un brigadiere generale dell’esercito inglese, che raggiungeva il suo