Pagina:Verne - L'isola misteriosa, Tomo I, Milano, Guigoni, 1890.pdf/63

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— Sarebbe pur l’occasione di assaggiare lo jacamar, rispose il marinajo, se quell’uccello acconsentisse a lasciarsi arrostire.

In quella un sasso, lanciato destramente e con forza dal giovinetto, colpì il volatile all’appiccatura dell’ala, ma non bastò il colpo, e lo jacamar se ne fuggì con tutta la velocità delle sue gambe e sparve in un istante.

— Imbecille ch’io sono! esclamò Harbert.

— No, fanciullo mio, soggiunse il marinajo, il colpo era portato bene ed è molto non aver sbagliato l’uccello. Via, non vi stizzite! Lo piglieremo un altro giorno.

Continuò l’esplorazione. Man mano che i cacciatori s’avanzavano, gli alberi più separati divenivano magnifici, ma nessuno produceva frutti commestibili. Invano Pencroff cercava alcuno di quei preziosi palmizi che servono a molti usi della vita domestica e la cui presenza fu segnalata fino al 40° parallelo dell’emisfero boreale, e fino al 35º soltanto dell’emisfero australe. Ma quella foresta si componeva solo di conifere, come a dire “deordas”, già riconosciuti da Harbert, di “douglas” simili a quelli che crescono sulla costa nord-ovest dell’America, e di meravigliosi abeti alti ben centocinquanta piedi.

In quella un volo d’uccelli di piccola statura e di leggiadre penne, dalla coda lunga e cangiante, si sparpagliarono fra i rami spargendo le piume debolmente attaccate che coprirono il suolo d’una fina peluria. Harbert raccolse alcune di quelle piume, e, dopo d’averle esaminate, disse:

— Sono curucù.

— Preferirei una gallina faraona, rispose Pencroff; ma almeno sono buone da mangiare?

— Certo che sì, ed anzi la loro carne è delicata, rispose Harbert; d’altra parte, se non m’inganno, è facile accostarci ad essi ed ammazzarli a colpi di bastone.