Pagina:Verne - L'isola misteriosa, Tomo II, Milano, Guigoni, 1890.pdf/54

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Fecero bene ad affrettare, poichè allo svolto del sentiero, presso ad una radura, videro il giovinetto atterrato da un essere selvaggio, senza dubbio da una scimmia gigantesca che stava per sbranarlo.

Gettarsi su quel mostro, atterrarlo alla sua volta, strappargli Harbert, poi tenerlo saldamente fu la cosa d’un istante per Pencroff e Gedeone Spilett.

Il marinajo aveva forze erculee; il reporter anch’esso era robustissimo; malgrado la resistenza del mostro, esso fu legato in modo da non potersi più muovere.

— Sei ferito, Harbert? domandò Gedeone Spilett.

— No, no.

— Ah, se ti avesse ferito, questa scimmia! esclamò Pencroff.

— Ma non è una scimmia, rispose Harbert.

A queste parole Pencroff e Gedeone Spilett guardarono l’essere singolare che giaceva a terra. Veramente non era una scimmia. Era una creatura umana, era un uomo. Ma quale uomo! Un selvaggio in tutto l’orribile significato della parola, e tanto più spaventevole in quanto sembrava essere caduto nell’ultimo grado dell’abbrutimento.

Capelli irti, barba incolta scendente fino al petto, corpo quasi nudo, tranne un lembo di coperta sulle reni, occhi feroci, mani enormi, unghie lunghe smisuratamente, colorito scuro come mogano, piedi induriti come se fossero stati fatti di corno; tale era la miserabile creatura che pure bisognava chiamare un uomo. Ma in verità si aveva diritto di domandarsi se in quel corpo ci fosse ancora un’anima o se il volgare istinto del bruto fosse sopravvissuto in lui.

— Siete proprio sicuro che sia un uomo, o che lo sia stato? domandò Pencroff al reporter.

— Ahimè! non v’è dubbio, rispose costui.

— E sarebbe questo il naufrago? disse Harbert.

— Sì, rispose Gedeone Spilett, ma il disgraziato non ha più nulla d’umano.