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sulla tortura. | 25 |
prete, ecc.» Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que’ tempi. Il risultato di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la vita e l’impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll’opera di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccaria, Licchiò, Saracco, Fusaro, un barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello, Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa plebe.
Quanto poi alle vociferazioni pubbliche, alcune attribuivano queste unzioni ai Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di distruggere l’Italia, altre agli eretici e particolarmente Ginevrini, altre al duca di Savoja, altri, non si sa poi bene come, ad alcuni gentiluomini milanesi, fatti prigionieri dal Papa e mandati in Milano; altri finalmente al conte Carlo Rasini, a D. Carlo Bossi, e più che ad ogni altro si attribuirono al cavaliere di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a spargere l’unzione. Che varj banchieri pagassero largamente questi emissarj, e fra questi Giambattista Sanguinetti, Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e che questi sborsassero qualunque somma, senza ritirarne quitanza, a qualunque uomo si presentasse loro in nome del cavaliere Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de’ negozianti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il cavaliere Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva che in Milano avesse formato e diretto questo attentato, egli era a Mortara e in altre terre del Piemonte, ove combatteva alla testa della sua compagnia in difesa di questo stato. Merita di essere trascritta la risposta ch’ei fece in processo quando fu costituito reo di queste unzioni. Così egli dice: Io mi maraviglio molto che il senato sia venuto a risoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non solo a me, ma alla giustizia istessa. Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dalla narrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. Come, proseguì esso cavaliere, un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso, avevo io da fare, nè pensare cosa che a loro e a me portasse tanta nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta. Questa risposta, detta nel calore di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l’infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio, e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de’ suoi giudici e del suo tempo.
La serie del delitto contestato al cavaliere di Padilla si ricava dalla