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Pagina:Versi di Giuseppe Giusti.djvu/67

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la vestizione. 43


Tanta è la sua viltà che non ne giova:
     E i bottegai de’ titoli lo sanno,
     Ma tiran via perchè gatta ci cova.

Come di Corte riempir lo scanno
     Che vuotan Conti tribolati? e come
     Le forbici menar se manca il panno?

Volle di Cavalier prendere il nome,
     Spazzaturaio d’anima, un Droghiere:
     Bécero si chiamò di soprannome.

In diebus illis girò col paniere
     A raccattare i cenci per la via,
     Da tanto ch’era nato Cavaliere.

Trovo che fece anco un sinsin la spia.
     Poi, come non si sa, l’ipotecario;
     Di questo passo aprì la Drogheria.

E coll’usura e facendo il falsario,
     Co’ frodi e con bilance adulterate,
     Gli venne fatto d’esser milionario.

Volle, quand’ebbe i rusponi a palate,
     Rubar fin la collottola al capestro,
     E col nastro abbuiar le birbonate.

D’un Balì che di Corte è l’occhio destro
     Dette di frego a un debito stantìo,
     E quei l’accomodò col Gran Maestro.

Brillava a festa la casa d’Iddio
     Tra il fumo degl’incensi e i lampadari:
     D’organi e di campane un diavolìo

Chiamava a veder Bécero agli altari
     A insudiciare il sacro ordin guerriero
     Che un tempo combattè contro i Corsari.

A lui d’intorno il Nobilume e il Clero
     Le parole soffiandogli ed i gesti,
     In tutti lo ciurmavan Cavaliero.