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della politica poetica 281


di dominio civile, e cosí i plebei non essendo ancor cittadini, — come ivan morendo, non potevano lasciare i campi ab intestato a’ congionti, perché non avevano suitá, agnazioni, gentilitá, ch’erano dipendenze tutte delle nozze solenni; nemmeno disponerne in testamento, perché non erano cittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ai nobili, da’ quali avevan essi la cagion del dominio. Avvertiti di ciò, subito fra tre anni fecero la pretension de’ connubi, nella quale non pretesero, in quello stato di miseri schiavi quale la storia romana apertamente ci narra, d’imparentare co’ nobili, ch’in latino arebbe dovuto dirsi «pretendere connubio cum patribus»; ma domandarono di contrarre nozze solenni, quali contraevano i padri, e si pretesero «connubia patrum», la solennitá maggior delle quali erano gli auspíci pubblici, che Varrone e Messala dissero «auspíci maggiori», quali i padri dicevano «auspicia esse sua». Talché i plebei con tal pretensione domandarono la cittadinanza romana, di cui erano natural principio le nozze, le quali perciò da Modestino giureconsulto son diffinite «omnis divini et humani iuris communicatio», che definizione piú propia non può assegnarsi di essa cittadinanza.