Pagina:Vicramorvasi.djvu/55

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itrofa) VICRAMÒRVASI. — ATTO IV. O « dall’anca ritonda » m’ascolta, A me in preda a tant’ansia rispondi: Vago augello, vedesti talvolta La mia bella da’ fianchi ritondi ? Tn mi chiedi: Chi son? — Se desio Di saperlo tu nutrì nel core, Luna e Sole ho per avi, e son io Della terra e d’Urvàsi signore! Taci e perché ? M’ascolta: A te parlar io bramo, e tu sai bene Che alla stregua de’ propri I casi altrui considerar conviene: Tu gemi, sol che la compagna fida Per breve tratto agli occhi tuoi s’asconda, Benché da lei null'altro ti divida Che di verde ninfèa picciola fronda. Oh! se tu levi al ciel si forti strìda Temendo ch’ella voli ad altri sponda, Perchè sprezzato si da tc son io Che pure son lontan dall’amor mio? In ogni loco — ahimè! — l’iniqua sorte Mi persèguita, e pure Nel più folto del bosco io mi sprofondo, (avanzandoti e guardando) La ninfèa chc tra le foglie, Che tra’ fiori questo sciame Susurrante d’api accoglie, Chc il vaghissimo fogliame Denso oppone al mio cammino, De la bella il volto pare Oliando il labbro a ribaciate Sospirando m’avvicino. « Non ti sturbi, o gentil, la mia venuta! » Si pure è ben ch’io dica All’ape in su quel loto, Chè giovar mi potria farmela amica. ==)| Col cor ch’è, nel duolo d’amor, più tenace, Solingo, del bene perduto più vago, Il giovane cigno non trova più pace, E l’acque dibatte del limpido lago. 11= Pururdvaia [all'ape] Se visto hai tu del bosco in fra i recessi Qjiegli ebbri sguardi, a chc negar lo vuoi? VICRAMÒRVASI. —