Pagina:Vivanti - Vae Victis, Milano, Quintieri, 1917.djvu/338

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«Ma non potevo, no, non potevo! Vi era qualche cosa in me di più forte della mia vergogna, di più forte del mio dolore!... Era come se una voce — la voce stessa di Dio — mi gridasse: «La maternità è sacra. Tu non ucciderai!»

Florian abbassò lo sguardo su quella figura prona. Era questa la piccola Chérie, la sua fidanzata? Questa la Chérie dal sorriso luminoso, dalle guance a fossette, la creatura eterea tra fiore, farfalla e bimba ch’egli aveva conosciuta e amata? Un gemito gli uscì dalle labbra. Ma ella non l’udì, non se ne curò. Il dolore dell’uomo non giungeva al cuore di lei fatto spietato dalla imperiosa, inesorabile passione materna.

«Ah! lo vorrebbero morto — sì! Io lo so che lo vorrebbero morto. E se potessimo fuggir via dalla vita, lui ed io insieme, ne sarei contenta.

Ma come — come farlo morire? Quando apre gli occhi e mi guarda, quando colle piccole mani mi tocca la faccia, come posso io pensare a fargli del male? Posso io forse colle mie mani stringere quella tenera gola e soffocare l’alito dolce della sua bocca?...»

Alzava a Florian gli occhi inondati di lagrime, ma non vedeva Florian.

Non vedeva che il suo strazio materno, non vedeva che la sua creatura, sangue del suo sangue.