naturali e felici, ma perciò appunto piú rozze, non potevano piú esser credute, né servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle illusioni. Ma come, se restavano e non potevano piú allontanarsi la ragione e il sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni dell’uomo? (Qui osservate gl’inutili sforzi di Cicerone nelle Filippiche, dove si studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non piú come verità, perché tali non erano piú credute; e com’egli, non avendo altro fondamento di esse illusioni, cercava di persuadersi dell’immortalità dell’anima e del premio delle buone azioni nell’altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e vedi gli altri pensieri). Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento, anzi col mezzo della (425) stessa ragione e sapere. Dico col mezzo, perché non c’era altro modo di richiamarle, se non tornare a giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano distrutte potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di nuovo nell’anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa, come conviene ora a qualunque filosofo vuol vivere. Non c’era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero l’aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini. Insomma, bisognava che questa religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O, parlando cristianamente, bisognava che una espressa