Pagina:Zibaldone di pensieri VII.djvu/181

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176 pensieri (4240)

l’uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende cosí tollerabile, per esempio a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l’uomo fa a quella noia, e l’impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai piú facili e piú leggeri. E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa piú che altrimenti (30 dicembre 1826, Recanati). Vedi p. 4267.


*    Circa la stima che gli antichi facevano della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro συλλογὴ ἑλληνικῶν ανεκδότων, τετράδιον, cioè quaderno γ᾽, imitando nelle altre cose, e molto felicemente, gli antichi, gl’imiti anche in questo, di lodar principalmente quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da’ suoi tempi (Recanati, ultimo del 1826).


*    Chi, scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell’arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico. Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare, con quanto si