Piccola morale/Parte quarta/I. Come possono dividersi gli uomini in due grandi specie

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Parte quarta - I. Come possono dividersi gli uomini in due grandi specie.

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Parte quarta - I. Come possono dividersi gli uomini in due grandi specie.
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I.

COME POSSANO DIVIDERSI GLI UOMINI
IN DUE GRANDI SPECIE.

Agognando tutti gli nomini indistintamente all’acquisto di ciò che presumono possa fargli felici, si diramano per due opposte strade, secondo l’opposto sentimento da cui sono condotti. Questi infatti non possono gustare un diletto appropriato alla naturale loro inclinazione senza danno d’altrui; quelli all’incontro in tanto si trovano contentati nei loro desiderii, in quanto giunsero a farsi stromento dell’altrui contentezza. Quantunque sì gli uni che gli altri operino a seconda di questa o di quella delle due contrarie tendenze surriferite, si può dire che l’attivila stia dal lato principalmente dei primi, quelli cioè che fauno lor pro del male d’altri. Chi vorrà considerare la razza umana attentamente e [p. 206 modifica]senza anticipate opinioni, si accorgerà di leggieri essere questa la divisione più generale che possa farsi degli individui che la compongono.

Poste queste due generali categorie, vedete a capo d’una il despota e il conquistatore: il primo sempre tremante che sia smossa una ancor che menoma pietruzza dell’edifizio della sua feroce dominazione; il secondo sempre avido di nuove aggiunte al proprio impero, sempre disposto a rosicchiare alcun poco del patrimonio dei suoi confinanti, se pure non gli succeda di poterlo divorare del tutto, simile alla lupa Dantesca ch’è carca di voglie nella propria magrezza,

          E dopo il pasto ha più fame che pria.

A capo dell’altra stanno per lo contrario i buoni e intelligenti monarchi, pei quali è giorno perduto quello in cui non poterono operare alcun che in favore dei loro vassalli: le sofferenze degli uomini in generale pesano sul loro cuore e ne rendono ineguali le pulsazioni, le disgrazie che arrivano ai paesi per essi governati gli trafiggono di più sollecita e più profonda ferita. Quando basta al vassallo una fortuna individuale a renderlo consolato, il monarca non sa essere compiutamente felice finchè sappia che un solo fra le migliaia di uomini affidate alle sue cure non ha souni tranquilli, e cibo conveniente a’proprii bisogni. Continuando in un tale esame vedrebbesi per un lato ministri e potenti d’ogni ordine che anelano a [p. 207 modifica]poggiar alto, non per altro motivo che per sentir sotto un maggior numero di teste su cui porre il piede; e per l’altro lato ministri e potenti che amano l’altezza del grado per ciò solo che possono di là vedere più distintamente i bisogni dei loro simili, e le vie di prestar loro soccorso con maggior sollecitudine ed efficacia. Discendete giù pure fino agli ultimi stati della società, ci trovercte sempre questa notabilissima divisione fra uomo ed uomo, ancorché collocati in una medesima condizione. I servi, poniamo caso, hanno essi pure, quale una beata necessità d’invigilare al decoro ed al buono andamento della casa da cui è pagato; quale per l’opposto una smania continua di farsi innanzi colle pretensioni a misura che crescono gli anni che seppe durare, o fu tollerato agli stipendii di un solo padrone. Che più? Ne’ fanciulli stessi veggiamo Domizietto preferire al gusto proprio di mangiare la pesca che gli fu data quello di regalarla al cugino; e Priscilla tener l’occhio al piatto della sorella, ed attendere che sia rimasto vuoto per trovare la propria vivanda più saporita.

Le cose tutte acquistano diverso valore a seconda di queste due diverse inclinazioni. Che fa a Licinia di un vestito ricchissimo e dell’estrema eleganza, se non si vedrà intorno chi le muoia sopra cogli occhi? Licinia per credersi beata ha bisogno di chi glielo dica, e non mica con dirette parole, ma indirettamente col proprio ram[p. 208 modifica]marico vedendosi mancante di quelle soprabbondanti agiatezze. A Sofronia all’incontro da noia quel tanto di ricco e fastoso de’ proprii arredi che la renda involontario eccitamento a inutili e spesso nocevoli desiderii nelle compagne. Il concetto che si è guadagnato Maurizio lo adopera a mettere in chiaro le primaticcie virtù dei giovani che promettono bene dei fatti loro; a Trebazio più che altro piace di potere, dirò quasi, schiacciare col peso della propria autorità qualunque buona argomentazione gli venga opposta. La fama è per ambidue una spada, che il primo presenta per l’elsa a chi ne ha bisogno, perchè vi si possa tenere afferrato; e il secondo dirizza sempre per la punta al petto delle persone in cui si abbatte, per farsi dare il passo senza contrasto.

Lungi pertanto dal dire che uno sia nato per comandare e un altro per obbedire, si potrebbe, prendendo la frase con discrezione, dire invece altri esser nato per soffrire, altri per far soffrire. Si soffre comandando, si fa soffrire servendo. Talvolta chi siede in trono, ed ha viscere di misericordia, patisce; e all’incontro uno spirito torbido, e un talento malvagio rimane indifferente, o si allegra al danno che gli è conceduto apportare a chi gli sovrasta. Molti detti conosciutissimi del seguente tenore: tutti, qual più qual meno, vogliamo comandare: chiunque può esser primo non rimane secondo ec. non indeboliscono punto quanto s’è da noi notato finora, [p. 209 modifica]giacchè tra due che vogliano comandare, tra due che vogliono esser primi, ci corre sempre quel divario notabilissimo d’intenzione che abbiamo avvertito.

Volendo trarre un qualche utile dalle fatte osservazioni, sarebbe da consigliare ognuno a ritorcere il pensiero sopra sè stesso per conoscere a quale delle due categorie egli appartenga. Qual confusione, qual ribrezzo di sé medesimi non dovrebbe cogliere coloro che si accorgessero di dover rimanere connumerati fra quelli la cui vita è distinta dall’obbrobrioso uffizio di far soffrire? Non parlo di quelli che adempiono da molt’anni e con grande opportunità di mezzi un si brutto offizio; costoro sono poco meno che incorreggibili; parlo di quelli, poichè anche in ciò si danno parecchie gradazioni, che hanno messi pochi passi nel cammino della vita, o che hanno un potere assai limitato. Dico a costoro che si ricordino contenersi in questa brutale inclinazione l’elemento d’ogni più enorme delitto. Si astengano dalla loro perniciosa attività; non presumano di essere essi soli gli stromenti necessarii al movimento dell’uuiversa macchina sociale. Non credano che tutto ciò che uon è essi sia fatto assolutamente per loro, o se vogliono pur credere questo, credano ancora di essere fatti essi pure per gli altri, a quella guisa stessa che gli altri fatti sono per loro. A quelli che fanno del bene altrui il bene proprio è da raccomandare, per [p. 210 modifica]lo contrario, di scuotere da sè la soverchia timidità. Ci sono pur troppo de’ casi (ed oh fossero rari!) ne’ quali non si può giovare ad uno senza nuocere in qualche guisa ad un altro! Pur troppo i benefizii tutti che possono venirci dalle mani dell’uomo hanno, qual più qual meno, un lato che li rende deplorabili! Ma è dovere di chi ha sortito felicità d’ingegno e dolcezza di cuore il por mente che la ruota, di cui non può ascendere una parte senza che l’opposta si abbassi, porti sul colmo, non chi n’è a caso o con frode salito, ma chi meritamente rimasevi collocato. Poco forse mancherebbe alla felicità comune, se gli operosi e gl’inerti cambiassero fra loro le parti; stessero immobili i piedi che non sanno levarsi senza calcare, e fossero in faccenda le mani che sono inclinate a sorreggere e a sollevare.