Pierre e Jean/VI

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VI

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V VII

Per una settimana o due non accadde nulla di nuovo in casa Roland. Il padre pescava, Jean, insieme alla madre, si occupava del suo appartamento. Pierre, assai cupo, compariva soltanto nelle ore dei pasti.

Una sera, il padre gli aveva domandato:

«Perché diavolo ci fai quella faccia da funerale? Non è da oggi che me ne sono accorto.»

Il dottore rispose: «La ragione è che sento terribilmente il peso della vita.»

Il vecchio non capì nulla e disse, con aria desolata:

«Veramente è troppo. Da quando abbiamo avuto la fortuna di questa eredità, tutti sembrano infelici. E come se ci fosse capitata una disgrazia, come se piangessimo qualcuno!»

«Infatti, io piango qualcuno,» disse Pierre.

«Tu? E chi?»

«Oh! una persona che tu non hai conosciuto e che io amavo troppo.»

Roland immaginò che si trattasse d’un amoretto, d’una ragazza leggera corteggiata dal figlio, e domandò:

«Una donna, no?»

«Sì, una donna.»

«Morta?»

«No, peggio; perduta.»

«Ah!»

Benché si meravigliasse di quella confidenza imprevista, fatta davanti alla moglie, e dello strano tono del figlio, il vecchio non insistette, pensava che quelle cose non riguardano gli altri.

La signora Roland sembrava non aver udito. Pallidissima, pareva malata. Più volte, già, il marito, meravigliato di vederla sedere come se cadesse sulla sedia, di udirla ansimare come se le mancasse il respiro, le aveva detto:

«Louise, tu hai veramente una brutta cera; senz’altro ti stanchi a mettere a posto l’appartamento di Jean! Riposati un po’, perdiana! Non ha fretta, il ragazzo, perché è ricco.»

Lei scuoteva la testa, senza rispondere. Il suo pallore, quel giorno, era tale che Roland, di nuovo, lo notò:

«Su,» disse, «così non va affatto bene: bisogna curarsi, mia povera vecchia.»

E, rivolto al figlio:

«Lo vedi bene, che tua madre non sta bene. L’hai visitata, almeno?»

Pierre rispose:

«No; non m’ero accorto che avesse qualche cosa.»

Allora Roland s’infuriò:

«Ma è una cosa che salta agli occhi, porco cane! A che ti serve esser dottore, se non vedi neanche che tua madre è indisposta? Ma guardala, to’, guardala! No, davvero, si potrebbe crepare e questo medico non se ne accorgerebbe nemmeno!»

La signora Roland s’era messa ad ansimare, pallida al punto che il marito esclamò:

«Ma sta per svenire!»

«No... no... non è niente... Passerà... non è niente.»

Pierre s’era avvicinato e la fissava.

«Vediamo un po’: che hai?» disse.

Lei ripeteva sottovoce, precipitosamente:

«Ma niente... niente... te lo assicuro... niente.»

Roland era uscito per prendere dell’aceto. Tornò e, porgendo la bottiglia al figlio, disse: «Tieni... Ma sollevala, dai! Le hai sentito il cuore, almeno?»

Mentre Pierre si chinava per prenderle il polso, lei ritirò così bruscamente la mano che urtò una sedia vicina.

«Andiamo,» egli disse con voce fredda, «lasciati curare, se sei malata.»

Allora lei sollevò il braccio e glielo tese. La sua pelle bruciava, i battiti del polso erano tumultuosi e irregolari. Egli mormorò:

«È una cosa piuttosto seria, infatti. Bisognerà prendere dei calmanti. Ti farò una ricetta.»

E, mentre scriveva, chino sulla carta, un lieve rumore di sospiri affrettati, come se qualcuno stesse per soffocare, di respiri corti e trattenuti lo fece voltare di colpo.

Lei piangeva con il volto tra le mani.

Roland, smarrito, domandava:

«Louise, Louise, che hai? Ma che hai, dunque?»

Lei non rispondeva e sembrava dilaniata da un dolore terribile e profondo.

Il marito volle staccarle le mani dal volto. Lei resistette, ripetendo:

«No, no, no.»

Allora lui si rivolse al figlio:

«Ma che cos’ha? Non l’ho mai vista così!»

«Non è niente,» disse Pierre, «una piccola crisi di nervi.»

E gli pareva che il suo cuore si consolasse nel vederla così torturata, che quel dolore alleviasse il suo risentimento, diminuisse il peso della vergogna di sua madre. La contemplava come un giudice soddisfatto dell’opera sua.

Ma, d’un tratto, lei si alzò in piedi, si slanciò verso la porta, con un balzo così improvviso che nessuno riuscì a prevedere, né arrestare, e corse a chiudersi in camera sua.

Roland ed il dottore rimasero uno di fronte all’altro

«Ci capisci qualche cosa?» disse il primo.

«Sì,» rispose l’altro. «È un semplice disturbo nervoso che viene spesso, all’età della mamma. È probabile che avrà ancora molte crisi come questa.»

Infatti ne ebbe altre, quasi ogni giorno, che Pierre pareva provocare con una parola, come se egli avesse posseduto il segreto di quel suo male oscuro e sconosciuto. Egli spiava sul volto di lei le pause di calma e, con astuzie da torturatore, ridestava con una sola parola il dolore placato per un attimo.

Ed egli soffriva quanto lei! Soffriva spaventosamente di non amarla più, di non più rispettarla e di torturarla. Quando aveva ben ravvivata la piaga sanguinante, aperta da lui in quel cuore di donna e di madre, quando la sentiva così miserabile e disperata, se ne andava solo, per la città, attanagliato dai rimorsi, addolorato dalla pietà, così desolato di averla dilaniata a quel modo con il suo disprezzo di figlio, e aveva voglia di buttarsi in mare, di annegarsi per farla finita.

Oh, come avrebbe voluto perdonare, ora! Ma non poteva, era incapace di dimenticare. Se soltanto avesse potuto non farla soffrire; ma neppure questo poteva fare, perché anche lui continuava a soffrire. Tornava alle ore dei pasti, pieno di affettuosi propositi; poi, appena la vedeva, appena incontrava il suo sguardo una volta così fermo e franco ed ora sfuggente, timoroso, smarrito, colpiva suo malgrado, non potendo trattenere la frase perfida che gli saliva alle labbra.

L’infame segreto che solo loro conoscevano lo aizzava contro di lei. Era un veleno che egli portava, ormai, nelle vene e che gli dava desiderio di mordere, come un cane arrabbiato.

Niente gli impediva più quella tortura senza fine, perché Jean viveva ormai quasi sempre nel suo nuovo appartamento e tornava soltanto per mangiare e per dormire, la sera.

Lui si avvedeva spesso delle amarezze e delle violenze del fratello e le attribuiva alla gelosia. Si riprometteva di metterlo a posto e di dargli una lezione, un giorno o l’altro, perché la vita familiare diventava assai penosa a causa di quelle continue scenate.

Ma, siccome viveva per conto suo ormai, soffriva meno di quelle brutalità e il suo amore per la quiete lo induceva alla pazienza. La fortuna, del resto, lo aveva inebriato e il suo pensiero si fermava soltanto sulle cose che avevano per lui un interesse diretto. Arrivava con la mente piena di piccole preoccupazioni nuove, per il taglio di una giacca, la forma d’un cappello di feltro, le dimensioni giuste dei biglietti da visita. E parlava con insistenza di tutti i particolari della sua casa, dei ripiani nell’armadio della sua camera per riporre la biancheria, di attaccapanni da appendere in anticamera, di campanelli elettrici disposti per prevenire qualunque introduzione clandestina nell’appartamento.

Era stato deciso che per l’inaugurazione del nuovo appartamento di Jean avrebbero fatto una gita in campagna a Saint-Jouin e che sarebbero tornati a prendere il tè in casa sua, dopo pranzo. Roland voleva andare per mare; ma la distanza e l’incertezza di arrivare per quella via se si fosse alzato vento contrario fecero respingere il suo parere e fu noleggiato un break per la gita.

Partirono verso le dieci in modo d’arrivare all’ora di colazione. La strada maestra, polverosa, si snodava attraverso la campagna normanna, che, per le pianure ondulate e le fattorie in mezzo agli alberi, somiglia ad un parco sconfinato. Nella carrozza, che procedeva al trotto lento di due grossi cavalli, la famiglia Roland, la signora Rosémilly ed il capitano Beausire tacevano, assordati dal rumore delle ruote e chiudevano gli occhi in una nuvola di polvere.

Era il tempo del raccolto. Accanto ai trifogli d’un verde cupo e alle barbabietole d’un verde vivo, il frumento giallo illuminava la campagna d’un chiarore dorato e biondo. Pareva che avesse bevuto la luce del sole. Cominciava la mietitura, qua e là, e nei campi dove già si stava falciando, si vedevano gli uomini dondolarsi facendo passare rasoterra la loro grande lama a forma d’ala.

Dopo due ore di marcia, il break imboccò una strada a sinistra, passò presso il mulino a vento che girava, malinconico avanzo grigio, mezzo marcio e condannato, ultimo superstite dei vecchi mulini, poi entrò in una bella corte e si arrestò davanti ad una casa civettuola: una locanda nota nei paraggi.

La padrona, detta «la bella Alphonsine», corse sorridente sulla porta e tese la mano alle due signore che esitavano davanti al predellino troppo alto.

Sotto una tenda, al margine d’un prato all’ombra di meli, alcuni forestieri facevano già colazione. Parigini venuti da Etretat. E, dentro la casa, si udivano voci, risate e acciottolio di piatti.

Dovettero mangiare in una camera, perché tutte le sale erano piene. Ad un tratto, Roland scorse, contro il muro, delle reti per gamberi.

«Ah, ah», esclamò. «Si pescan gamberi, qui?»

«Sì» rispose Beausire, «è, anzi, il punto della costa dove se ne prendono di più.»

«Perdinci! Se ci andassimo, dopo colazione?»

Alle tre, infatti, ci sarebbe stata la bassa marea. Fu, quindi, deciso che tutti avrebbero trascorso il pomeriggio tra gli scogli, alla ricerca dei gamberi.

Mangiarono poco per evitare la congestione quando avrebbero avuto i piedi nell’acqua. Volevano, d’altra parte, stare leggeri per il pranzo, che venne ordinato sontuoso e doveva essere pronto per le sei, quando sarebbero tornati.

Roland non stava in sé dall’impazienza. Voleva comperare gli attrezzi speciali, che si adoperano per quel genere di pesca e che somigliano molto a quelli usati per la caccia alle farfalle sui prati.

Li chiamano retini. Sono piccole tasche di rete, attaccate su un cerchio di legno in cima ad un lungo bastone. Alphonsine, sempre sorridente, glieli prestò. Poi aiutò le due donne a improvvisare una mise per non bagnarsi i vestiti. Offrì loro gonne, calzettoni di lana e scarpette di corda. Gli uomini si tolsero le calze e comprarono dal calzolaio del luogo sandali e zoccoli.

Poi si misero in cammino con la rete in spalla e la gerla sul dorso. La signora Rosémilly, in quel costume, era molto graziosa, d’una grazia imprevista, contadinesca e ardita.

La gonna prestata da Alphonsine, rialzata con civetteria e fermata da un punto, per poter correre e saltare tra gli scogli senza paura, metteva in mostra la caviglia e la parte inferiore del polpaccio, un polpaccio sodo di donnina agile e forte. La vita era libera per dare agio ai movimenti ed ella aveva trovato, per coprirsi il capo, un immenso cappello da giardiniere, di paglia gialla, dalle tese smisurate, con un ramo di tamerice, che lo teneva rialzato da un lato, e le dava un aspetto spavaldo, alla moschettiera.

Dopo la sua eredità, Jean si domandava ogni giorno se l’avrebbe sposata o no. Ogni volta che la rivedeva si sentiva deciso a farla sua moglie, poi, appena si ritrovava solo, pensava che, aspettando, si ha il tempo di riflettere. Lei adesso era meno ricca di lui, perché possedeva soltanto dodicimila franchi di rendita, ma in beni immobili, in fattorie e in terreni a Le Havre, sopra i bacini, tutte cose che, più tardi, potevano valere una grossa somma. I patrimoni erano, quindi, presso a poco equivalenti e la giovane vedova gli piaceva molto.

Quel giorno, guardandola camminare davanti a lui, pensava: «Devo decidermi. Dove posso trovare di meglio?»

Percorsero un valloncello in pendio che scendeva dal villaggio verso la scogliera, che dalla cima dominava il mare da un’altezza di ottanta metri. Un grande triangolo d’acqua, di un turchino argenteo sotto il sole, appariva da lontano nella cornice verdeggiante delle coste che digradavano a destra ed a sinistra, e, laggiù, una vela appena visibile pareva un insetto. Il cielo, pieno di luce, si fondeva talmente all’acqua che non si poteva distinguere affatto dove finisse l’uno e cominciasse l’altra, e le due donne che precedevano gli uomini si stagliavano su quel chiaro orizzonte con le loro figure strette nel busto.

Jean, con gli occhi accesi, guardava fuggire davanti a sé le caviglie sottili, le gambe fini, i fianchi morbidi e il cappellone provocante della signora Rosémilly. E quella fuga eccitava il suo desiderio, lo spingeva alle risoluzioni decisive, come le prendono all’improvviso le persone indecise e timide.

L’aria tiepida, dove, all’odore delle ginestre, dei trifogli e delle erbe, si mescolava il sentore marino degli scogli affioranti, lo animava ancora di più inebriandolo dolcemente ed egli, ad ogni passo, ad ogni secondo, ad ogni sguardo lanciato sulla svelta figurina della giovane donna, si sentiva sempre più deciso a non esitare ancora, a dirle che l’amava e che desiderava sposarla. La pesca gli sarebbe servita, facilitando un loro colloquio a quattr’occhi e, inoltre, sarebbe stata una graziosa cornice, un grazioso posto per parlare d’amore, con i piedi in una pozza d’acqua limpida, guardando fuggire sotto le alghe le lunghe barbe dei gamberi.

Quando giunsero in cima al vallone, sull’orlo del precipizio, scorsero un piccolo sentiero che discendeva lungo la scarpata e, sotto di loro, tra il mare e il piede della montagna, a mezza costa, un sorprendente caos di massi enormi, caduti, rovesciati, ammucchiati gli uni sugli altri in una specie di piano erboso e accidentato che correva, a perdita d’occhio verso il sud, formato dai crolli più vecchi. Sopra quella striscia di rovi e d’erba, che pareva scossa da sussulti vulcanici, le rocce cadute sembravano rovine di una grande città scomparsa, costruita, in altri tempi, davanti l’oceano, dominata a sua volta dalla muraglia bianca e sconfinata della scogliera.

«Che bello,» disse la signora Rosémilly, fermandosi.

Jean l’aveva raggiunta e, tutto emozionato, le offriva la mano per discendere la stretta scala tagliata nella roccia.

Andarono avanti, mentre Beausire s’irrigidiva sulle sue gambette e tendeva il braccio piegato alla signora Roland, impressionata dal vuoto.

Roland e Pierre venivano per ultimi e il dottore doveva trascinare suo padre, così sofferente di vertigini che scivolava, seduto di gradino in gradino.

I giovani, in testa, andavano svelti. All’improvviso, videro, accanto ad una panchina di legno un filo d’acqua limpida, che sgorgava da un buco della roccia. Si spandeva prima in una pozza grande come un catino, che s’era scavata da sé, poi ricadendo in una cascatella alta appena due piedi fuggiva attraverso il sentiero sul quale era spuntato un tappeto di crescioni; e scompariva tra i rovi e l’erba, attraverso la pianura rialzata dove si ammucchiavano le rocce franate.

«Oh, che sete!» esclamò la signora Rosémilly.

Ma come fare a bere? Ella tentava di raccogliere nel cavo della mano l’acqua che le sfuggiva attraverso le dita. Jean ebbe un’idea: mise una pietra sul sentiero e lei vi si inginocchiò sopra per bere alla sorgente con le labbra, che si trovavano, così, alla stessa altezza.

Quando rialzò la testa, coperta di goccioline luccicanti sparse a migliaia sulla pelle, sui capelli, sulle ciglia, sul corpetto, Jean, chino su di lei, mormorò:

«Come è carina!»

Lei rispose con il tono di quando si sgrida un bambino:

«Vuole star zitto?»

Erano le prime parole un po’ tenere che si scambiavano.

«Andiamo,» disse Jean molto turbato, «scappiamo prima che ci raggiungano.»

Egli scorgeva, infatti, ormai molto vicino a loro, la schiena del capitano Beausire, che discendeva all’indietro per sostenere con ambedue le mani la signora Roland e, più in alto, più lontano, Roland che si lasciava scivolare sul fondo dei pantaloni, trascinandosi sui piedi e sui gomiti, con un’andatura di tartaruga, mentre Pierre lo precedeva sorvegliando i suoi movimenti.

Il sentiero meno scosceso sembrava, ora, una specie di strada in pendio che girava attorno agli enormi massi caduti in altre epoche dalla montagna. La signora Rosémilly e Jean si misero a correre e, ben presto, raggiunsero la spiaggia ghiaiosa. L’attraversarono per arrivare agli scogli. Questi si estendevano per una lunga superficie piatta, coperta d’erbe marine dove brillavano innumerevoli pozze d’acqua. Il mare era là, più lontano, dietro una pianura vischiosa d’alghe, d’un verde lucido e nero.

Jean rimboccò i pantaloni fin sopra il polpaccio e le maniche sopra i gomiti per non bagnarsi, poi disse: «Avanti!» e saltò deciso nel primo acquitrino che si trovò davanti.

Più prudente, quantunque decisa a sua volta ad entrare subito in acqua, la giovane donna girava intorno alla piccola pozza a passi timidi, perché scivolava sulle piante viscide.

«Vede qualcosa?» diceva.

«Sì, vedo il suo viso riflesso nell’acqua.»

«Se non vede altro, non farà certo una pesca straordinaria.»

Egli sussurrò con voce trepida:

«Oh! Tra tutte le pesche, sarebbe quella che preferirei!»

Lei rideva.

«Provi, dunque, e vedrà come passerà attraverso la rete.»

«Eppure... se volesse...»

«Voglio vederla prendere gamberi e niente altro, per il momento.»

«È cattiva. Andiamo più avanti: qui non c’è niente.»

E le offrì la mano per camminare sugli scogli viscidi. Lei si appoggiava, un poco impaurita, ed egli, a un tratto, si sentì invaso d’amore, sconvolto dal desiderio, affamato di lei, come se il male che germogliava in lui avesse atteso quel giorno per manifestarsi.

Presto arrivarono vicino a un crepaccio più profondo, dove, sotto l’acqua fremente che scorreva verso il mare lontano attraverso una fessura invisibile, galleggiavano erbe lunghe e sottili dagli strani colori, capigliature rosa e verdi che pareva nuotassero.

La signora Rosémilly esclamò:

«Guardi, guardi! Eccone uno, uno grosso grossissimo là in fondo.»

Egli lo vide a sua volta e discese risolutamente nella pozza bagnandosi fino alla vita. Ma il gambero, agitando i suoi lunghi baffi, indietreggiava lentamente davanti alla rete. Jean lo sospingeva verso le alghe sicuro di prenderlo; ma quando il gambero si sentì preso in trappola scivolò con un lungo balzo al di sopra della rete, attraversò lo specchio d’acqua e scomparve.

La giovane donna, che aveva seguito palpitante quella caccia, non poté trattenersi dall’esclamare:

«Oh, che maldestro!»

Egli rimase urtato e con un movimento impulsivo trascinò la rete sul fondo pieno di erbe. Nel riportarla alla superficie vide dentro tre grossi gamberi trasparenti presi alla cieca nel loro invisibile nascondiglio. Li porse trionfante alla signora Rosémilly che non osava toccarli per paura della punta aguzza e seghettata che arma la loro stretta testa. Tuttavia si decise e stringendo tra le dita le punte sottili delle loro barbe, li depose uno dopo l’altro nel cestino con un po’ d’alghe per conservarli vivi Poi avendo trovato una pozza d’acqua meno profonda vi entrò esitando, con il fiato corto per il freddo che sentiva ai piedi, e si mise a sua volta a pescare. Era abile e astuta, agile di mano e col fiuto del cacciatore. Quasi a ogni colpo riusciva a prendere qualche bestia ingannata e sorpresa dall’astuta lentezza del suo inseguimento.

Jean ormai non trovava più niente, ma la seguiva passo passo, la sfiorava, si chinava su di lei fingendo una gran disperazione per la propria incapacità; voleva imparare.

«Mi faccia vedere, mi faccia vedere.»

Poi come i loro volti si riflettevano l’uno vicino all’altro nell’acqua limpidissima che le piante scure del fondo rendevano simili ad uno specchio terso, Jean sorrideva a quel volto che lo guardava dal sotto e con la punta delle dita le mandava un bacio che pareva vi cadesse sopra.

«Ah come è noioso,» diceva la giovane donna. «Caro mio, non bisogna mai fare due cose insieme.»

«Ma io ne faccio una sola: la amo,» rispose lui.

Lei si rialzò e con tono serio:

«Vediamo, che cosa le prende da dieci minuti? Ha perso la testa?»

«No, non ho perso la testa; la amo e finalmente ho trovato il coraggio per dirglielo.»

Erano in piedi nello specchio d’acqua salata immersi fino ai polpacci, con le mani gocciolanti appoggiate sulle reti e si guardavano profondamente negli occhi.

Lei riprese con tono di scherzosa contrarietà:

«Che idea parlarmi in questo momento! Non poteva aspettare un altro giorno e non guastarmi la pesca?»

«Ma io non potevo più tacere,» mormorò lui, «l’amo da molto tempo. Oggi lei mi ha fatto perdere la testa.»

Allora improvvisamente parve decidersi come se si rassegnasse a parlare d’affari e a rinunciare agli svaghi.

«Sediamoci su questo scoglio,» disse, «potremo chiacchierare tranquillamente.»

Si arrampicarono su una roccia un po’ alta e quando furono l’uno accanto all’altra, i piedi a ciondoloni, in pieno sole, lei riprese:

«Mio caro amico, lei non è più un ragazzo e io non sono una bambina. Sappiamo benissimo entrambi di che cosa si tratta e possiamo valutare tutte le conseguenze delle nostre azioni. Se oggi lei si è deciso a dichiararmi il suo amore suppongo che vorrà sposarmi.»

Lui non si aspettava quella precisa messa a punto della situazione e rispose ingenuamente:

«Ma... sì...»

«Ha parlato con suo padre e sua madre?»

«No, volevo sapere se mi diceva di sì.»

Lei gli porse la mano ancora bagnata e mentre lui la stringeva con slancio aggiunse:

«Io accetto, la credo buono e leale, ma si ricordi che non voglio dispiacere ai suoi genitori.»

«Oh! Pensa forse che mia madre non abbia immaginato niente e che le sarebbe affezionata com’è, se non desiderasse un matrimonio tra noi?»

«È vero, sono un po’ emozionata.»

Rimasero in silenzio. Ed egli invece si stupiva che lei fosse così poco emozionata, così ragionevole. Si aspettava qualche galante civetteria, dei no che sono dei sì, e tutta una schermaglia amorosa mescolata alla pesca e nello sciabordio del mare.

Era già finito: egli si sentiva legato, sposato in venti parole. Non avevano più nulla da dirsi, perché erano d’accordo e se ne stavano lì, ora, un po’ entrambi imbarazzati per ciò che era avvenuto, un po’ confusi anche, non osando più parlare, né pescare, senza saper cosa fare.

La voce di Roland li salvò:

«Per di qui, per di qui, ragazzi! Venite a vedere Beausire. Sta vuotando il mare, questo demonio!»

Il capitano, infatti, faceva una pesca miracolosa. Bagnato fino alle reni, andava da una pozza all’altra, individuando con una sola occhiata i posti migliori e frugando con un movimento lento e sicuro della sua rete tutte le cavità nascoste sotto le alghe.

E i bei gamberi trasparenti, d’un biondo grigio, guizzavano nella sua mano quando li prendeva con un gesto secco, per gettarli nella cesta.

La signora Rosémilly, sorpresa, felice, non lo lasciò più, facendo del suo meglio per imitarlo, dimenticando quasi la sua promessa a Jean, che la seguiva sognante, per darsi tutta a quella gioia infantile di raccogliere le bestiole sotto le erbe fluttuanti.

Roland esclamò all’improvviso:

«To’: ecco la signora Roland che ci raggiunge.»

Era rimasta, dapprima, sola con Pierre sulla spiaggia; nessuno dei due aveva voglia di divertirsi a correre tra gli scogli e a guazzare nell’acqua, e tuttavia esitavano a rimaner soli insieme. Lei aveva paura di lui e suo figlio aveva paura di lei e di se stesso, paura della propria crudeltà che non riusciva a dominare.

Si sedettero l’uno accanto all’altra sulla ghiaia.

Ed entrambi, sotto il calore del sole attenuato dalla brezza marina, davanti al vasto e dolce orizzonte d’acqua azzurra striata d’argento, pensavano nello stesso tempo: «Come si sarebbe stati bene qui, una volta!»

Non osava più parlare a Pierre, ben sapendo che lui le avrebbe risposto con durezza, ed egli non osava parlare a sua madre, sapendo che, senza volerlo, avrebbe usato parole violente.

Egli tormentava con la punta del bastone i sassolini rotondi, li scuoteva e li picchiava. Lei, con gli occhi perduti, aveva preso tra le dita tre o quattro pietruzze e le faceva passare da una mano all’altra, con un gesto lento e meccanico. Poi il suo sguardo indeciso, vagando davanti a sé, scorse, in mezzo alle alghe, Jean che pescava con la signora Rosémilly. Allora li segui, spiando i loro movimenti, intuendo in modo confuso, con il suo istinto materno, che non stavano chiacchierando come al solito. Li vide chinarsi uno accanto all’altra, quando si specchiavano nell’acqua, restare in piedi a faccia a faccia, quando interrogavano i loro cuori, poi arrampicarsi e sedere sulle rocce, per impegnarsi l’uno verso l’altra.

Le loro figure si stagliavano nette, parevano sole in mezzo all’orizzonte, assumevano in quell’ampio spazio di cielo, di mare, di scogli un certo che di grande e di simbolico.

Anche Pierre li stava osservando e all’improvviso scoppiò in una risatina secca.

Senza volgere il capo, la signora Roland gli domandò:

«Che cos’hai?»

Egli sogghignava sempre.

«M’istruisco. Imparo come ci si prepari a diventar cornuti.»

Lei ebbe un sussulto di collera, di ribellione, urtata dalla parola, esasperata da ciò che credeva di capire.

«Per chi dici questo?»

«Per Jean, diamine! È molto buffo vederlo così.»

Lei mormorò, con voce tremante per l’emozione:

«Oh, Pierre, sei crudele! Quella donna è l’onestà in persona. Tuo fratello non potrebbe trovare di meglio.»

Pierre si mise a ridere in pieno, d’un riso forzato, a scatti.

«Ah, ah! L’onestà in persona! Tutte le donne sono l’onestà in persona... e tutti i mariti sono cornuti. Ah, ah, ah!»

Senza rispondere, lei si alzò, discese rapidamente il pendio ghiaioso e, a rischio di scivolare, di cadere nelle buche nascoste sotto l’erba, di rompersi una gamba o un braccio, andò, quasi correndo attraverso le pozze, senza vedere, dritto davanti a sé, verso l’altro suo figlio.

Jean, vedendola avvicinarsi, esclamò:

«E allora, mamma, ti decidi?»

Senza rispondere, lei gli afferrò il braccio, come per dirgli: «Salvami; difendimi.»

Lui vide il suo turbamento e, molto sorpreso, disse:

«Come sei pallida! Che hai?»

«Stavo per cadere ed ho avuto paura su queste rocce,» balbettò.

Allora Jean la guidò, sorreggendola mentre le spiegava la pesca perché lei vi si interessasse. Ma, poiché la madre non lo ascoltava ed egli provava un violento bisogno di confidarsi con qualcuno, la trascinò più lontano e le disse sottovoce:

«Indovina un po’ che cosa ho fatto?»

«Ma... ma... non saprei.»

«Indovina.»

«Io... non so...»

«Ho detto alla signora Rosémilly che voglio sposarla.»

La madre non rispose, sentiva un ronzio nella testa ed era così sconvolta che capiva a stento. Ripeté:

«Sposarla?»

«Sì... ho fatto bene? Non è deliziosa?»

«Sì; deliziosa... Hai fatto bene.»

«Allora mi approvi?»

«Sì... ti approvo.»

«Lo dici in modo così strano! Sembra che... che tu non abbia sentito.»

«Ma sì... sono... contenta.»

«Davvero, proprio?»

«Davvero...»

E, per dimostrarglielo, lo abbracciò stretto e lo baciò in pieno volto, con grandi baci materni. Poi, quando si fu asciugata gli occhi, dove erano spuntate le lacrime, vide laggiù, sulla spiaggia, un corpo disteso bocconi, come un cadavere, con il volto nella ghiaia. Era l’altro, Pierre, che rimuginava, disperato.

Allora lei condusse il suo piccolo Jean più lontano ancora, vicino al mare. E parlarono a lungo di quel matrimonio al quale il suo cuore protendeva.

Il mare che saliva li ricacciò presso i pescatori e, insieme, tutti tornarono verso l’entroterra. Destarono Pierre, che fingeva di dormire. Il pranzo fu molto lungo, innaffiato da diverse qualità di vini.