Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti)/I

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Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti) II

 
Al fuoco! soccorrete, oimè, ch’io ardo!
Sempre nocque esser tardo

o differir codardo — a chi è disposto:
quel ch’esser dee sia tosto,

ché dove è il ver nascosto — e mal ridotto
ne va del par lo scotto.

Poi ci crepiamo sotto — e non si amenda.
Chi ha gusto m’intenda,

e ciascun mi riprenda, — s’io errassi.
E pur pian pei mal passi,

né trasandar si lassi — chi ha sospetto.
Proverbio è comun detto,

che che ’l vulgo iscorretto — cianci o ciarli,
che qual saggio esser parli

ha il cervel pien di tarli — e poco sale
e aggiunge esca al male,

ché diventa bestial, — ma non sel crede.
Chi pur tardi s’avvede,

né più nel mal procede, — è me’ che mai,
perch’oggi son gli stai

dei fraudolenti assai, — colmi a malizia,
che bisogna dovizia,

per fuggir lor nequizia, — di riguardi;
e cappionci i bugiardi,

sussurroni e infingardi — in sul pulito,
e quello è mal gradito

che ’l ver porge espedito — e quel conviensi.
Chi più n’ha me’ dispensi,

sicch’a’ giusti e’ compensi — ogni sua cura,
ché chi non si misura

passa presto e non dura. — Questo è certo.
Colui è saggio e sperto

che sa giucar coperto — al fuggir susta;
e se pur non li gusta

di seguir cosa ingiusta, — temporeggi.
Se te vinci e correggi

e bene ai tuoi proveggi, — hai fatto assai;
ma se briga ti dai

d’altrui, guarda che fai, — e sia con modo,
ch’altrimenti io non lodo

questo tanto istar sodo — in ben parere,
contraffar di sapere

sanza esser, per volere — esser tenuto.
E sonmi anche avveduto

che gli cognosco al fiuto — e sì per pruova,
ch’ogni cosa par nuova

s’ella non gusta o giova — a chi la vòle.
L’un dell’altro si dole,

e ciascun con sue fol — vòto ha il cervello.
Chi me’ volge mantello,

colui per certo è quel — che gode il tutto.
Il fatto è qui redutto,

che poi mi son condutto — e senza iscorta,
e la materia importa.

Terrò per la più corta — per men dubbio;
e parte ho volto il subbio,

s’io non ma’ stessi in dubbio — di mie doglie.
Non correre al tôr moglie,

ché ’l mal vien presto e coglie — e vassen piano,
se non ti senti sano,

perché lo stare invano — a lor rincresce:
poca concordia n’esce

e ’l fuoco ognor più cresce — alle tue spese.
Seguitan poi le imprese

e segreto o palese — ben convienti;
così languisci e stenti,

sicché indarno ti penti — dopo il fatto:
non giova tregua o patto.

Scorgonti mentecatto — e isvemorato;
così male arrivato

infine se’ istraziato — da ognuno,
né si ralegri alcuno

se di questo è digiun, s’altro si serba.
Assai strana e acerba

e che corrode e isnerba — è ben l’offesa;
ma più dura intrapresa,

s’ella ti strigne o pesa, — a piggiorarla,
e, credendo ritrarla,

e’ sia multiplicarla — a tuo malgrado.
E truovasi di rado

chi ben si scorga al guado — e porti in pace.
Questo mondo è fallace:

sol quel che giova piace — e dà solazzo.
Non dir più ch’io c’impazzo;

propio è d’anitre un guazzo, — a dirvi il vero,
e da meno è ch’un zero

chi ’l crede di leggiero — o chi ’l consente.
Sai chi non vale niente?

Chi si governa a mente — e gusta nulla;
sempre invan si trastulla

come fantin da culla, — e non si avvede
che ’l tempo poi non riede,

ma veloce procede — e passa corto.
E ramarcasi a torto

chi mal n’è istato accorto — e chi il conosce.
Di strane e varie angosce,

a chi non si sconosce, — è il mondo pieno;
ciascuno ha le sue in seno,

e quel par n’aggia men — n’è me’ fornito.
S’esser vuoi reverito,

sappi pronto e spedito — contenerti
cogli uomin saggi e sperti,

ma gli occhi tieni aperti — a ogni giuoco;
distingui il tempo e il loco,

e tien che giova poco — il far del grosso.
Ognun ci ha il suo soprosso,

sicch’è il meglio aver dosso — di buffone.
Parti buona ragione

sì far del compagnon, — se non ti costa.
Tien ferma la proposta,

eppur sempre a tua posta — a te ritorna;
non distender le corna

con quel che ti soborna — innanzi tratto.
Attendi e sta’ pur quatto;

ma quando e’ vien quel fatto, — in pien l’acogli:
accocca e ben raccogli,

ché ’l render poi, se vuogli, — mai non manca.
Molto ben si rifranca

chi regge e non si stanca — nel ben fare;
né vuolsi abandonare,

ché chi sa conservare — avanza assai.
Giammai tanto il gustai

quanto oggi più che mai — il ricognosco;
né di ciò mi scognosco,

ché non pur sol nel bosco — si smarisce
e boccon si patisce,

ché mal poi si smaltisce — all’altrui colpa.
Consuma e nervi e polpa,

né quella che ti scolpa — non ten guarda,
ma divien muta e tarda,

lenta, vile e infingarda — a tua difesa;
né giova far contesa

quand’ella ha la via presa — e ’n piena è volta,
m’aspettar la rivolta

con pazïenza molta — c’è forzato.
Quello è superbo e ingrato,

malviso e allevato, — al parer mio,
che non cognosce Iddio

e sé mette in oblio, — né fa tale opra
che’ falli suoi ricopra,

per conseguir di sopra — etterna grazia.
N’è maggior la disgrazia

che ’l stare in pertinazia; — è mai riparo
l’amenda e ’l viver chiaro.

Fare il mal tardo e raro — è quel che merta.
Chi truova la via aperta

e va cercando l’erta — è om leggieri.
Di folli e van pensieri

siàn pien più oggi ch’ieri — insino agli occhi.
Non aspettar che scocchi

se puoi, innanzi trabocchi, — reparare,
ché folle è lo ’ndugiare

per averlo amendar, — ch’è più tuo danno.
Quei c’han provato il sanno.

S’a chi coglie il malan — n’ha per più mesi.
E qui par sien compresi

quei c’han se istessi offesi, — al mio parere.
Dicesi che ’l tacere,

né altrui dispiacer — non nocque mai.
Questo so che ti sai,

ma del contrario assai — si son pentuti.
Molti son conosciuti,

ma pochi e proveduti — al far la mostra;
l’effetto cel dimostra

se in questa terra nostra — n’ha dovizia,
c’han del senno notizia.

Ma fanne maserizia — perché basti.
Tu ben mi tocchi i tasti;

non ci mordiamo i basti, — io te ne priego;
basta! ch’io non tel niego

che n’han ridotti in piego — e in pellicino.
Ognun vuole il fiorino

e il resto a buttino — è buona usanza.
Parti bella civanza?

Sì, mentre c’è abondanza — di balocchi.
Guardisi a chiunche e’ tocchi,

ché parrà che rintocchi — allo sbucare.
Che ti parrà da fare?

Che sanza più indugiar — chi può provegga;
chi presiede ben regga

e gli altri si corregga: — questo è il modo.
Tu mi parli in sul sodo;

ma chi scio’ questo nodo? — Ignun nol vuole
Questo è quel che mi duole,

che così di cazzuole — ci pasciamo;
però poco possiamo

e ’n fumo ce ne andiam: — questo è l’efetto.
Pur, se non fosse accetto,

s’intenda per non detto — a voi patrizî,
ma vorria che i giudizi

fusson qual son gli ofizî — buoni; e spesso
parria altro processo,

né saria compromesso — a perder piato.
E, s’io mi perdo il fiato

e non sarò imborsato, — io non mi sia.
Qualche cosa pur fia,

s’io levo ricadia — a me e a essi.
Qual sarièno i processi,

chi ritrar gli volessi — tutti appieno?
Infiniti sarièno,

ch’ogni lingua vien meno — a tale ofizio.
Mercantile esercizio

saria, al mio giudizio, — il camin ritto,
e farà più profitto

che star tutto il dì fitto — a imbeccar fave.
Questo mi saria grave,

però ch’ella è la chiave — a far quel fatto.
Ver di’ se ’l montar ratto

e lo scender di tratto — van del pari;
assai ben mi dichiari

che nei superchi erari — ell’è aguagliata.
Ahi, misera brigata!

Voi fate gran derrata — a sì car pegni.
Ognun s’adesca e ingegni,

ma il giuoco non s’insegni — a chi nol sa.
Abbisi il mal chi l’ha,

ché molto ben gli sta, — s’ha quel che vuole.
E se ’l comun si duole,

spaccial pur di parole — e lascia andare,
ché sciocchezza è istentare

per aversi a guardar — pe’ fatti altrui.
Vuolsi por mente a cui,

perché chi serve a lui — non serve a niuno;
el meschin ch’è digiuno

sanza riguardo alcun gli ha sormontati.
Cresciuti e allevati,

gli truova così grati — ai suo bisogni;
né alcun par si vergogni

a pascerlo di sogni — o d’ordir sette.
Tal c’ha ancor le scarpette,

con che pur ier ristette — uscir di villa,
né sa né può disdilla,

e le parole istilla — pel lambicco
Quest’è di ch’io m’impicco,

ché mai più non mi spicco — da’ bizzarri
né fa mestier ch’io narri

come nei lor bazzarri — e’ rigan ritto
quanto dura il profitto

né più si stende o è iscritto — in lor rubrica.
Fu sempre usanza antica,

donde il mal si nutrica, — al mio parere,
ch’assai ghiotti a tagliere

fan quistione al seder — pur per migliore
contribuir l’onore.

A chi ’l merta maggiore, — in ogni lato
debba esser commendato,

e ’l contrar biasimato — in chi l’abusa,
ché ’l ben non vuole scusa

ma al mal si pon l’accusa. — Chi è ribaldo
istà pur fermo e saldo.

Né per freddo o per caldo — non piegare,
ma tienti nel ben fare,

ch’egli è dolze imparare — a l’altrui spese.
Guardati dalle ’mprese,

e mantienti cortese — e vivrai lieto,
pacifico e quïeto,

e non ti affoltar drieto — alla brigata,
ché spesso s’ha ghignata

chi cerca gran derrata — a picciol pregio.
Sai chi n’ha previlegio?

Chi i buoni ha in dispregio — e in compromesso,
Mastica il senno spesso,

per tre polizze espresso — v’è imborsato,
benché sia svemorato

e publico aventato — In suoi processi
E bench’io nol dicessi,

pur da questi inframessi — esce la pesta:
chi può gli altri calpesta

e tanto la rimesta — che si assetta.
Chi pur d’altrui cinguetta

più che non se gli aspetta, — a dir fra noi,
si sciopera ne’ suoi,

sicché gli adoppia poi — di gran misura.
Chi troppo s’asicura

e nulla o poco cura — ha gran tempiate,
e anche alle fïate,

perché ben la intendiate, — ne dà altrui.
Bene è sciocco colui

che va drieto al già fui — per darsi briga,
perché ’l mal suo non striga,

ma e’ cresce fatica — sanza frutto.
Quel ch’è disposto al tutto

di governarsi e in tutto — e’ fa a suo modo
e mantienvisi sodo;

se si cruccia i’ nol lodo, — ch’egli ha il torto.
Parlami schietto e scorto

col parente, consorto e con l’amico;
ma con resto non dico,

ch’ognun diven nimico — a chi l’afibbie.
Questo spesso con bibbie

convien ch’apra e disfibbie — e guasti ogni arte,
per seguire in disparte

quelle non osa sparte — discoprire.
Io parlo per ver dire,

sol per quel può seguir, — non per disprezzo.
Così mi sono avezzo,

e notai, già buon pezzo — chi son quelli;
e m’intende bene elli.

S’alcun c’è, non favelli — e stia alla posta
con la bocca composta,

ché non ti faria sosta, — se potesse,
pur che non si credesse,

e vie più se sapesse — il danno grave.
Malvagie anime prave,

ch’avete in man la chiave, — ora è quel tempo;
lavorate col tempo,

ché sempre non per tempo — si dispensa
per chi più grave il pensa

e lo ’ndugio compensa — col suplizio!
Assai è comune vizio

biasmar l’altrui giudizio — e no il suo stesso,
né lodo il cader spesso,

o simile anche apresso — il pender sempre.
Le sode e buone tempre

reggon ’nanzi si stempre — maggior botte,
ma sono oggi corrotte

e fracide ridotte, — o preme il basto.
E tal gugna è da pasto,

c’ha ’l guidalesco guasto — e la farsata.
Ahi, turba scellerata,

s’ognun comporta e guata — il mal suo stesso!
E chi in te il tutto ha messo,

nelle Stinche o nel cesso — usi sua vita.
E truovasi smarrita

in te grazia espedita — e buon soccorso,
ché troppo è duro il morso

a spacciar per l’accorso — ognun che langue.
Tra’ fior sta ascosto l’angue,

che ne consuma il sangue — e fin non ha.
Dovria bastar chi fa

quel che può, né più là — è l’uom tenuto;
se chi può t’è in aiuto,

fagli sempre il dovuto — acconcio e presto,
né stimar troppo il resto,

pur che sia pronto e desto — a mantenerlo
onorare e temerlo,

per potere riaverlo — volentieri.
Chi crede di leggieri

non riesce il pensieri — il più fïate;
e nelle gran tirate

si colgon le ghignate — allo infornare.
Però meglio è l’andare

rattenuto al tagliar, — più ch’al disegno,
per non rimaner pegno

o di favole pregno — con suo danno.
Forse ch’alcun diranno

che ’l darmi troppo afanno — mi diletta;
altri che non si aspetta

o troppo m’inframetta — a dire il vero.
Or fusse ognuno intero,

come e’ saria mestiero, — a chi ’l conosce
far che chi si sconosce

gusti che son l’angosce — e torni a lega.
Ma chi può ce la frega,

e così preso ha piega — il ciambellotto.
Quel che caccia al di sotto,

o troppo mette a scotto — e poco acquista
dove il tutto consista

se si lamenta e atrista, — e’ n’ha ragione.
Chi non mète a stagione

per nessuna cagion — seminar giova.
E bestial si ritruova

quel che si strazia in pruova — e piace altrui.
Guardati da colui,

ch’or d’altri, or di costui — ciance rapporta,
che non ti spacci in sorta,

perché ’l sacco che porta — ha tristo fondo.
Chi in questo cieco mondo

non sa notar va a fondo, — e sassi i danni;
ma chi si pasce a inganni

tosto convien che appanni — nella rete:
perché, come sapete,

quale asin dà in parete —, tal riceve.
Nessun peso è sì greve,

quanto quel strigner deve — coscïenza,
sì ch’abbiate avertenza

di scaricarla e senza — furia o fretta,
ch’assai mal vi s’asetta

chi pur l’estremo aspetta — e quivi è giunto.
Vuolsi star sempre a punto,

perché giugne in un punto — chi Dio manda.
Fornisce e non domanda

quel che ragion comanda e i suoi precetti.
Guarda dove ti metti;

esamina i suspetti — e ’l tempo e ’l modo
e fondati in sul sodo,

né mai, per frodo o lodo, — andrai a ricorso,
perché troppo è trascorso

dar botte d’orbo o d’orso — a occhi aperti;
e quei ne sono esperti,

c’hanno i colpi sofferti — e fatto prova.
Chi in bisogno si truova

e vuol far la ripruova — delli amici
fuor de’ tempi filici,

presto, più che nol dici, — si chiarisce;
ma chi in grado salisce,

beato chi supplisce — al proferersi!
E chi in prosa e chi in versi,

chi me’ sa vuol valersi — di frittelle.
Passa pur colle belle,

ma, se t’esce di quelle — ed ha’ danari,
guida il giuoco de’ pari

e sanza indugiar guar — rispondi a coppe,
resecando le troppe;

e spaccia le faloppe — per lo corso,
sicché non sia rincorso,

ma saldo tieni il morso — e va’ imbrigliato.
Quello è male avisato

che ’l giuoco ha dimostrato, — ov’elli è colto;
è spiacevole istolto

chi imbizzarrisce molto — e tardi riede.
Quel che l’altrui possiede,

s’al dover poco accede — e fanne archimia,
giuocola più che scimia;

né giova arte di scrimia — a render poi.
E se alcun n’è fra noi,

questo pe’ fatti suoi — non si contende;
basta, se vilipende,

che a cerchio riprende — i suoi seguaci,
sol per farli capaci

che’ colpi son fallaci — a far da senno.
Quel che ’ntende per cenno

o sta sodo al tentenno — ha buona testa;
l’opra tel manifesta,

se corrisponde a sesta — o se indovina.
Chi fa danno in cucina

s’afibia cappelina che s’accosta,
né ricuopre a sua posta

quel che caro li costa — alcuna volta.
Ahi, gente ingrata e istolta!

La vostra non fia colta, — ma gravezza;
se nel mal fare avezza,

ch’assai vi dà gramezza, — ignun s’amenda,
di voi pietà vi prenda,

né più ci si contenda — e poserete.
Gustate ove che sète,

ch’a tempo ancor sarete — a ciò disporre,
sanza più contrapporre,

perché chi più trascorre ha maggior botto.
Ricordivi quel motto,

ch’a ogni esperto e dotto si rapporti.
ch’altro non se ne porta

alla partita corta — che la fama.
Amianci; ama chi t’ama.

La ragion vi ci chiama — onestamente
e natura il consente.

Adunche vi stia a mente — istar provisti;
scegli dai buoni i tristi,

così l’onor n’acquisti — e te rifranchi.
E riservinsi i granchi,

ché grascia non ci manchi — per quaresima
a chi gli tenne a cresima,

ché con quella medesima — si spassi,
sicché ’l fummo s’abbassi,

spacciandoli per cassi — alla lucchese.
Se così fai palese,

fien le virtù raccese, — e non per prezzo.
Né creder ch’or da sezzo

l’asino muti il vezzo — ma sì il pelo.
Io ti canto il Vangelo,

e, s’io son tuo, nol celo, — e tu lo sai;
sempre tel dimostrai,

ch’a buon’ora provai — morsi del mozzo.
Parmisi al mento e al gozzo,

sicché ancor pel singhiozo — il mal mi preme.
Sia benedetto il seme

e chi ’l produsse insieme — a far tal frutto,
che ’l fatto ha sì ridutto

che n’ha rifranchi in tutto — e da gran male.
Poco si gusta e vale,

né in Firenze è spezial — che schietto il tenga.
Per dio, che si mantenga,

che guai per quei si spenga — o si rovescia!
ché n’uscirà tal vescia

che in tutto ci arovescia — e tardi sana.
Nel pel si freghi a piana

a chi cerca mattana — o contrapporsi;
ma co’ calci e coi morsi,

innanzi che si smorsi, gli si aricci,
fornendolo a tre licci,

sicché si raccapricci — chiunque l’ode.
Né smozzicate code

o vi fate alle prode, — ma nel mezzo;
e rimbuchivi al rezzo,

sicché s’esca di lezzo — e vitupèro.
Amor mi strigne intero

a ricordarvi il ver — né mai fu’ ingrato;
e, s’io sono biasmato,

forse anche commendato — da qualcuno.
Il ver conosce ognuno;

pur se non fusse alcun — chi me’ il sa fare
riprendi, ché è men dare

o più tosto abbaiar — che parlar motto,
o metter del suo a scotto.

Sappia ch’io ho altro sotto — ch’io non mostro
e scorgo il paternostro,

meglio assai nol dimostro, — da quel fatto.
E così di bel patto

chi mi vòl mal sia fatto — e ben gli venga
quanto par si convenga;

e in quel proprio il mantenga come vòle,
sicché, s’alcun si dole

e le giuste parole a torto accusa,
chi gusta e intende faccia la mia scusa.