Primo maggio/Parte prima/IV

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Parte prima - IV

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Alberto Bianchini aveva scelto la carriera dell’insegnamento letterario, non solo per la tendenza naturale del proprio ingegno, ma anche per un sentimento capriccioso di vanità mondana: perché gli pareva che in lui, giovane agiato, elegante, addestrato a tutti gli esercizi cavallereschi, e destinato brillare nella società signorile, avrebbe acquistato una grazia insolita, sarebbe parso una qualità singolare ed amabile quel titolo di professore di lettere, che suol dar l’immagine d’uno studioso un po’ pedante e un po’ sciatto, rifuggente dal bel mondo per necessità o per natura. Ma questa vanità egli aveva perduta in parte nel corso dei suoi forti studi universitari, e non glie ne restava più traccia quando, terminati gli studi, entrava a un tempo stesso nell’insegnamento e nell’arte. Nell’arte era entrato di sbalzo con un’opera d’immaginazione e d’analisi: le confessioni di un uomo che, rifatto fisicamente fanciullo, ricomincia la vita scolastica, e giudica dai banchi della scuola, con l’intelligenza e l’esperienza dell’età virile, gli studi, i compagni, gl’insegnanti, i piccoli avvenimenti d’ogni giorno; lavoro, per le sue forze, prematuro, e in molti punti manchevole; ma vivo e ardito, lampeggiante d’idee originali, e condotto, da un capo all’altro, a ondate d’eloquenza colorita e sonora, che avevano avuto una grande fortuna. Ma dopo questo, cui eran seguiti altri libri, il suo ingegno s’era urtato a un intoppo misterioso e insuperabile. Aveva ottenuto ancora qualche favore la Storia d’una casa di montagna, nuova nel concetto, ma errata nel disegno, nella quale eran descritti e narrati giorno per giorno il lavoro di costruzione, le fatiche, le dispute, gli amori, le piccole vicende degli operai e delle operaie, dalla scavazione per le fondamenta fino alla festa tradizionale per il compimento del tetto, con una sovrabbondanza pesante di particolari tecnici, fornitigli dal muratore Peroni, abitante nella sua casa: poi egli non aveva fatto più altro che ricercar se stesso senza ritrovarsi. E uscito deluso anche dalla prova degli studi d’erudizione e di critica, a cui si ribellava la sua indole impaziente e la sua calda fantasia, era vissuto lungo tempo in uno stato doloroso d’impotenza artistica, durante il quale aveva assistito alla morte lenta della sua prima gloria, cercando invano una grande idea da cui far scaturire una grande passione, sentendo spegnersi l’un dopo l’altro tutti i suoi entusiasmi, e le sue migliori facoltà arrugginirsi nell’inerzia, e intristire nell’ombra anche la bontà del suo cuore. A ventitré anni era quasi celebre, a trentacinque era come morto.

Un piccolo avvenimento fortuito lo mise quasi a un tratto in un nuovo corso di idee. Era entrato quell’anno, a lezioni incominciate, nel primo corso del liceo Brofferio, dov’egli insegnava lettere italiane, un giovanetto di sedici anni, pallido e serio, che il Preside gli aveva annunciato un giorno avanti con cert’aria d’inquietudine, dicendogli che era fratello di un avvocato Rateri, non conosciuto da tutti e due che di nome, direttore d’un giornale socialista, la Quistione sociale, fondato di fresco. Non essendosi occupato mai di tale argomento, che gli appariva come un problema di meccanica celeste, egli non aveva mai letto il giornale, che a Torino leggevano pochissimi, e che gli altri giornali cittadini non rammentavano mai. La presenza di quel giovinetto nella scuola gli destò una vaga curiosità, che lo indusse a cercare il foglio, con la certezza di non trovarvi che dei saggi, non nuovi, di quella vacua rettorica rivoluzionaria, di cui finanche l’eco lontana l’aveva sempre seccato. Ma, leggendone un primo numero, e altri dopo, stupì. Il giornale era scritto quasi per intero dal direttore, che si celava sotto vari pseudonimi. Il supposto rétore arruffa popoli era una mente ordinata e ragionatrice, dotata d’una forza d’argomentazione mirabile, che allacciava e serrava il lettore per modo, da dargli quasi un senso d’oppressione, doloroso all’orgoglio, e ancora una potenza d’espressione tutta propria, attinta, in parte, a forti studi letterari, la quale s’aiutava in mille forme ardite e felici col latino, col francese, col tedesco, coi vernacoli, e col linguaggio di tutte le scienze, condensando le idee con uno sforzo quasi violento in uno stile pieno d’asprezze e di scosse subitanee, e come rumoreggiante giù nel profondo, in cui pareva di sentire martellar delle incudini, soffiar dei mantici, fremere delle folle. Egli che ignorava ancora l’arte facile con la quale si fa il vuoto e il silenzio intorno ai propagatori delle idee odiate, si maravigliò che un pensatore e uno scrittore di quella fibra non avesse più autorità e più rinomanza. Digiuno affatto com’era delle dottrine che quegli propugnava con tanto vigore, non poteva seguitare il filo scientifico dei suoi ragionamenti, che richiedevano nel lettore studi e consuetudini intellettuali molto diverse dalle sue; onde s’arrestava a ogni tratto nella lettura come chi ha smarrito la strada in un paese straniero; ma la gagliardìa delle critiche, simili a percosse di fruste metalliche, con cui flagellava i vizi e le idee della sua classe; la profonda limpidità dello sguardo col quale, attraversando i tempi, vedeva gli indizi, gli aspetti, le vicende della grande quistione a tutti gli orizzonti della storia; la fede irremovibile nella propria ragione, la superba certezza della vittoria futura, che appariva in ogni suo scritto, piantata sopra un fondamento saldissimo di meditazioni continue e pacate, gli scossero l’animo, gli suscitarono un vivo desiderio di avvicinarsi, studiando la quistione, a quel singolarissimo ingegno. Un giorno quegli venne alla scuola a domandare informazioni del fratello, e scambiò qualche parola con lui. Il suo aspetto gli rese anche più vivo quel desiderio. Era un uomo sui trent’otto anni, alto e diritto, con un viso lungo e regolarissimo, d’una bianchezza e d’una fermezza marmorea, al quale i capelli irti e corti e la barba piena facevano una cornice nera, quasi funerea, e aveva due occhi azzurri velati, che parevan sempre fissi sopra un orizzonte lontano: una testa d’ostinato, una fronte d’uomo imperturbabile, un abito da prete spretato, una cortesia fredda, una voce aspra, e nessun gesto, come se avesse le braccia d’un morto.

Spronato da quel desiderio, egli si gettò alle nuove letture con la curiosità vivace d’un viaggiatore che si affaccia a una terra sconosciuta, sorvolando a tutto il socialismo sentimentale e filosofico del primo periodo, per afferrarsi ai fondatori scientifici della dottrina. Era, per sua natura, singolarmente preparato a ricevere da quelle prime letture una impressione straordinaria, poiché il più vivo e il più profondo dei suoi sentimenti era quello che chiamò "fondamento d’ogni moralità" lo Schopenhauer, la pietà; raffinato in lui da una calda immaginazione. In ogni periodo della sua vita, anche quando egli aveva l’animo più offuscato dall’orgoglio, dalla sensualità, dai rancori, quel sentimento aveva trovato aperta sempre e subito la via del suo cuore, dal quale scacciava nell’atto, per più o meno tempo, tutti gli altri. Egli non poteva veder soffrire senza soffrire egli stesso con intensità quasi eguale a quella di chi l’impietosiva. La vista d’un vecchio povero, d’un fanciullo consumato dagli stenti, d’una donna lacera e piangente, gli dava all’anima una stretta violenta, un’angoscia, un impulso di pietà appassionata, che gli faceva vuotar la borsa, che gli avrebbe fatto dare anche i panni che portava in dosso, se non gli fosse rimasto altro da dare. Anche la sola idea astratta d’una creatura umana che, in mezzo a una grande città, con o senza sua colpa, non ha un tozzo o un pugno del più vile alimento da cacciarsi in corpo per non morire, che manca di quello che non manca al cane, alla belva, all’insetto più schifoso e malefico, gli era insopportabile come un dolore fisico acuto; e per poter vivere e lavorare doveva cacciar di continuo dalla mente, con uno sforzo faticoso, il pensiero che siffatte miserie esistevano intorno a lui, che gli passavano accanto non viste per la via, che si nascondevano forse nella sua medesima casa, sopra il suo capo. Fino allora, per altro, egli non aveva sentito che la pietà della indigenza e dei dolori individuali. Ma quando, nelle nuove letture, vide per la prima volta la miseria delle classi inferiori studiata in tutti i paesi, esposta in tutti li suoi svariatissimi aspetti, esaminata in tutte le sue conseguenze funeste, provata con cifre spaventevoli; quando conobbe tutte insieme le forme più miserande e inumane della fatica, gli orrori delle cave, delle risaie, degli opifici avvelenati, delle terre miasmatiche, le moltitudini condannate all’ozio forzato e alla fame, le generazioni infantili falciate dalla morte, che sta in agguato dietro al lavoro, i millioni di tane immonde dove millioni d’uomini s’ammontano e s’ammorbano e si imbestiano, e ritto davanti a sé, come una montagna di sozzume, il cumulo immenso di alimenti repugnanti e mortiferi di cui si pasce quotidianamente una moltitudine innumerevole di gente che lavora per un consorzio civile da cui par segregata e reietta; allora tutta l’anima sua ne fu sconvolta, come dalla rivelazione d’un nuovo mondo. Per la prima volta egli vide scorrere davanti a sé l’enorme fiume nero della miseria, a onde di sangue, di sudore e di pianto, ciascuna delle quali travolge una vittima e manda una maledizione e un singhiozzo, e come il Fausto del Goethe sentì tutte le angosce dell’umanità pesare sulla sua fronte e schiacciare il suo cuore.

E nel tempo stesso egli udiva dire per la prima volta che tutti questi mali non erano effetto d’una legge misteriosa di natura, ma avevano le loro cause nelle istituzioni umane, e queste cause vedeva per la prima volta esposte e dimostrate. E si diede a studiarle avidamente. Era la parte critica della dottrina, la più forte e la più persuasiva, quella in cui regnava un quasi compiuto accordo fra le scuole più discordi, e alla quale erano opposte meno valide ragioni dagli avversari. Qui, non di meno, errò per qualche tempo in una nebbia d’idee, cercando d’afferrarne una, che gli illuminasse tutte le altre. E ne afferrò una, che era già nella sua mente da un pezzo, ma confusa e fuggevole; cagione prima d’ogni male il possedimento concesso a un piccolo numero d’uomini di quello che è l’origine di tutti i prodotti e di tutte le ricchezze e il grande serbatoio di quanto è necessario alla vita comune; la proprietà privata della terra, su cui tutti nascono e muoiono, l’uso della quale è supremo interesse di tutti; la proprietà che toglie all’uomo il diritto di partecipare al dominio della Natura, e fa che millioni d’uomini, trovando già tutto posseduto al loro apparire nel mondo, nascano servi e mendichi. L’ingiustizia e il danno d’una tal legge gli apparvero con la stessa evidenza luminosa che avrebbe avuto per lui l’assurdità d’un monopolio dell’aria che respiriamo. E per lo squarcio fatto da questa nella cerchia delle sue vecchie idee, un’altra gli entrò nella mente subito dopo, legata stretta alla prima: la lucida comprensione d’un’altra causa di mali infiniti: il disordine immenso nella produzione di tutto ciò che alla società è necessario, l’anarchia dell’industria ridotta un gioco d’azzardo, di cui scontano le perdite le moltitudini che non hanno parte nei profitti, una libera concorrenza che mette in perpetuo contrasto l’interesse personale con l’interesse collettivo, che fa della vita civile una guerra combattuta con le armi dell’astuzia e della frode, che mette il lavoro, funzione sociale, senza protezione e senza diritti, in balìa della cupidigia e dell’egoismo, che sperpera un tesoro enorme di tempo, di forze e di ricchezza, trascurando ogni cosa utile ad altri che non frutti a chi la produce, arricchendo gli uni con le spoglie degli altri, mantenendo la società in uno stato perpetuo di affanno e di violenza, in cui si logorano le più nobili facoltà e si scatenano le più tristi passioni umane. E infine egli comprese per la prima volta, nella sua origine e nei suoi effetti, il grande fatto, che non aveva mai meditato, della ricchezza: intuì l’ingiustizia che presiede alla sua formazione nella apparente, non reale, libertà di contratto tra chi compra il lavoro e chi lo vende, la figliazione mostruosa del denaro che mantiene delle dinastie di parassiti, vittoriosi fin dalla nascita nella lotta per l’esistenza, e conquistatori senza lotta fino alla morte; l’esenzione iniqua della ricchezza individuale dal debito che ella avrebbe verso la società per la grande parte in cui questa concorre a produrla; e riconobbe nei suoi istituti e nell’opera sua la grande feudalità finanziaria, che, non contenuta da alcun freno né di legge né di morale, posta quasi al di sopra del diritto e dello stato, fornita di tutti i privilegi delle antiche classi spodestate, allaccia nella sua rete il commercio, l’industria, l’agricoltura, incetta e gioca le ricchezze nazionali, accaparra a suo profitto tutte le invenzioni e tutti i progressi, impone ad ogni cosa un balzello enorme che fa duplicare a tutti il lavoro, perturba coi suoi monopoli giganteschi le condizioni dell’esistenza dei popoli, e raccogliendo a poco a poco nelle proprie mani tutti i mezzi di produzione, con essi costringe una sempre maggiore moltitudine d’uomini a chiederle il pane e a subire le sue leggi, tende a dividere la società in una piccola schiera di dominatori che avranno tutto e in una folla immensa che non avrà nulla, separate l’una dall’altra, da una diseguaglianza più odiosa, da un’avversione più feroce, da una contrarietà di interessi più inconciliabile e più funesta di quella che separava la servitù e la signoria dell’età media.

Quetato il primo tumulto di queste idee, che lo misero in uno stato di rivolta segreta contro la società, si presentò a lui pure quell’eterna domanda: - Che fare? - e allora prese ad esame i grandi rimedi, la trasformazione fondamentale di ogni ordinamento, che il socialismo proponeva. Era la parte più debole della dottrina, quella in cui è a tutti più arduo e più lungo acquistare una salda persuasione favorevole. Egli fu lietamente maravigliato, sulle prime, trovando la teoria della ricostruzione condotta già molto più innanzi di quello che si fosse vagamente immaginato, una enorme quantità di materiali pel nuovo edifizio già lavorati e quasi ordinati dal pensiero scientifico di mille intelletti poderosi e pazienti, la nuova vita sociale descritta e dimostrata possibile e quasi perfetta fin nelle sue minime funzioni e in ogni più difficile prova. Poi, voltatosi ad ascoltare le ragioni degli avversari, s’arrestò, sgomentato. Al primo urto della loro critica che affermava assurda la nuova teoria del valore, soffocata dal collettivismo la libertà individuale, distrutto dall’abolizione della proprietà privata lo stimolo al lavoro, impossibile proporzionare legalmente il compenso alla varia natura dell’opera, inconcepibile l’azione d’uno stato proprietario d’ogni cosa e incaricato di tutte le direzioni e di tutte le iniziative, gli parve che l’edifizio crollasse, ed egli indietreggiò, soverchiato per un istante dall’amarezza d’una gran delusione. Ma se non riusciva a persuadersi della possibilità dei rimedi, a che giovava l’indignazione contro le ingiustizie, a che la pietà delle miserie e dei dolori? E questi sentimenti erano già in lui così forti, che non poteva più rassegnarsi a crederli vani. Una forza prepotente lo cacciava innanzi. Egli aveva bisogno d’una fede oramai, e la voleva ad ogni costo. E allora si mise a cercarla con la passione che vuol trovare quello che cerca e abbatte tutti gli ostacoli sulla sua via. Si lanciò a capo basso contro alla critica nemica del suo sogno, raccolse nuove ragioni contro i suoi argomenti, si dissimulò fra questi i più forti, ingrandendo nella propria immaginazione l’importanza di quelli che riusciva ad abbattere, si afferrò all’idea che la trasformazione si sarebbe compiuta per effetto di eventi imprevedibili e di forze non ancor conosciute, che i vizi dell’ordinamento preposto sarebbero stati corretti con le modificazioni suggerite ed imposte dall’esperienza, che la società nuova avrebbe creato essa medesima, come la natura negli organismi animali, gli organi necessari alle sue nuove funzioni, che dalla concordia dei millioni d’oppressi già vicini alla meta sarebbe derivato nella società un tal mutamento morale da rendere agevole quasi miracolosamente l’attuazione d’ogni più vasta ed ardita idea; che, infine, quello che innanzi a ogni cosa premeva e s’aveva a fare era di consacrarsi alla santa causa, di proclamare e di diffondere il sentimento della ingiustizia e della intollerabilità dello stato sociale presente, di ordinare per ora le moltitudini intorno a questa sola bandiera, poiché esse non si raccolgono che sotto alla bandiera della negazione, e di suscitare nella gioventù colta e generosa, con l’esempio e con la parola, la fiamma della fede che compie i prodigi e solleva il mondo. Così, un po’ per virtù d’entusiasmo, un poco per effetto di persuasione, egli s’era formato un’illusione di certezza, che la gioia di aver dato alla sua vita un nuovo ideale gli fece creder così piena e ferma e illuminata, da non aver più bisogno di porla alla prova ritornando a pesar le ragioni dei negatori. Datosi alla nuova idea con tutto l’impeto della sua natura, non comunicando più che con le menti che gliele avevano infuse, trovava ogni giorno una nuova ragione in suo sostegno, esultava della sua rapida diffusione, che su di lui aveva forza d’argomento, e l’accarezzava in segreto come un tesoro e n’era altero come d’una conquista, aspettando d’essere abbastanza forte di meditazione e di studi da poter professarla arditamente e difenderla da valoroso. Tutti i suoi ideali passati, intanto, tutte le sue ambizioni d’insegnante e d’artista impallidivano davanti a quella nuova ospite dell’anima sua, come al sorgere dell’alba la fiammella del lume con cui aveva vegliato a meditarla.