Primo maggio/Parte quarta/I
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Quando al principio d’ottobre, dopo due mesi di solitudine in val di Susa, Alberto ritornò in città con la famiglia, il suo piccolo libro sulla fanciullezza sfruttata, uscito da pochi giorni, correva già per mille mani e otteneva un effetto maggiore d’ogni speranza. L’esame e il raffronto accurato delle varie legislazioni protettrici del lavoro dei fanciulli e la copia e la disposizione sagace dei dati statistici davano un’efficacia grande alla parte descrittiva, nella quale erano presentati tutti gli effetti miserandi del lavoro precoce coi tocchi sobri e potenti d’uno scrittore pervenuto alla maturità dell’ingegno, senz’aver perduto una scintilla della sua giovinezza. Per entro a un’atmosfera tetra, velata dal fumo delle officine, dai vapori delle cave e dai miasmi delle risaie, passava la processione sciagurata, in cui nessuna forma di martirio mancava: dai fanciulli sepolti nelle miniere carbonifere della Francia e del Belgio, trascinantisi carponi nel fango col sacco attaccato alla gola, fino ai carusi nudi delle zolfatare di Sicilia, barcollanti sotto il carico su per le scale orribili dei pozzi, con lo stomaco gravato del pane nauseabondo intinto nell’olio delle lampade, e passavano tutti i piccoli oppressi, avvizziti ed anemici, con le faccie smunte e gli occhi spenti, coi ventri enfiati e le ossa scontorte, coi piedi e le mani piagate, con le braccia scoriate e livide dalle percosse, cadenti dal sonno o piangenti in silenzio; passavano gli avvelenati dal piombo e dal fosforo, gl’intisichiti dalla malaria, gl’imbecilliti dalla pellagra, i mutilati dalle macchine, gli accecati dalle fornaci, gli arsi vivi dal grisù, i consunti dal digiuno e dalle angoscie, confondendo i rantoli della fatica, gli schianti delle tossi secche e gli urli del dolore nel lamentio disperato d’una cerchia dell’inferno. Dal lavoro il lettore li accompagnava ai loro covi notturni, alle capanne, alle grotte, alle stamberghe cieche delle città grandi, nella promiscuità immonda delle famiglie ammucchiate, e di qui seguiva gli uni fino ai camposanti, dove migliaia d’altri figliuoli d’operai, nati cadaveri, o uccisi dai narcotici, o morti d’inanizione sui seni materni inariditi, li aspettavano; e poi teneva dietro ai superstiti sulla via del carcere e dell’ospedale, riconoscendoli vittime quasi sempre dell’oppressione patita nei primi anni, rifuggenti dal lavoro nella gioventù per averlo odiato come un castigo atroce nella fanciullezza, destituiti del senso della simpatia per indebolimento del sistema nervoso e per inesperienza assoluta d’ogni affetto benevolo, mancanti di senso morale perché chiusi alla simpatia e alla benevolenza, duri e crudeli coi propri figliuoli perché i loro parenti, cresciuti com’essi, erano stati con essi duri e crudeli: ed eran denunziate le inique violazioni delle leggi sul lavoro, che si commettono sfrontatamente e di continuo in Italia ed altrove, le indulgenze scellerate delle autorità, la trascuranza e la complicità degli ispettori, e l’indifferenza di tutti; flagellata l’ingiustizia e l’orgoglio della società che urla contro i vizi e i delitti che essa semina, e si vanta di rialzare da terra una su cento delle creature che stramazza e calpesta; e trafitta con sarcasmo sanguinoso, infine, questa grande impostura o aberrazione della pietà, che va a cercare i piccoli negri a migliaia di miglia di lontananza, che si profonde sui bruti e che si stempera sulle sventure create dai poeti, e non vede o non vuol vedere o giustifica lo strazio infame che si fa della carne e dell’anima di millioni di fanciulli sotto i suoi occhi. Ma allo scoppio dello sdegno succedeva in ultimo un’ardente invocazione al cuore delle donne e dei giovani perché da loro venisse un impulso poderoso all’azione della carità e della legge, un volo d’eloquenza ispirata, in cui salivano insieme a un’altezza non mai raggiunta da lui la forza dell’idea e la potenza dell’affetto, uno di quei raggi ardenti dell’anima, in cui fugge una parte della vita di chi li gitta, e che passano i petti e le fronti, e fanno anche i più tristi e i più leggieri buoni e pensierosi per un giorno.
L’idea socialista balenava in ogni pagina, in modo da non lasciar dubbio agli iniziati sul suo ritorno risoluto alla prima fede; ma non essendo espressa formalmente in alcun punto, anche la stampa conservatrice, per necessità, fece accoglienza favorevole al libro; il quale ebbe nelle classi inferiori un’eco clamorosa. Alberto godé per vari giorni delle soddisfazioni dolcissime. La prima fu una visita del Barra, che venne da lui con le mani tese e col buon sorriso d’una volta, a congratularsi con le più calde lodi e con certi commenti fisiologici, sulla "mancanza di simpatia" dei ragazzi logori, che lo lasciaron maravigliato dei nuovi passi che aveva fatti negli studi. Poi comparve il Calotti, agitando per aria il libro, che aveva postillato, e in cui trovava dei significati profondi sotto alle frasi più semplici, tutto gongolante che l’Autorità si rodesse, com’egli pensava, di non poterlo sequestrare, sapendo che egli ed altri se ne servivano per la propaganda, con effetti maravigliosi. Altri operai gli vennero a chieder delle copie; altri gli scrissero su dei fogli di carta rozza congratulazioni sgrammaticate ed ingenue, con indirizzi stranissimi; gli arrivarono saluti e parole amichevoli d’uomini autorevoli del partito, rallegramenti d’amici lontani, non più visti da anni, di cui lo stupì il cambiamento radicale di idee, lettere di ragazzi d’officina, una di una vecchia operaia, madre di piccoli operai, piena di affetto e di gratitudine. Ebbe infine quello che gli stava a cuore più di tutto: l’accettazione del suo ravvedimento da parte della Quistione sociale e del Rateri, poche parole d’elogio misurato e quasi rude, contenenti, come sempre, un pensiero originale e profondo sull’argomento, e improntate di quella superiorità degnevole dell’uomo di scienza per l’uomo di sentimento, con cui egli usava stimolare l’amor proprio e a un tempo contenere l’orgoglio dei neofiti che voleva legare al suo carro. Gli mancava ancora una soddisfazione, ch’egli non avrebbe osato dire a nessuno quanto desiderasse; ma gli venne anche questa: due parole di Maria Zara sopra una carta di visita, ch’ei ricevette in presenza di sua moglie e nascose in furia, arrossendo insieme dal piacere e dalla vergogna del sotterfugio.
In famiglia, il suo trionfo ebbe effetti diversi. Sua moglie ne fu contenta. Il suocero, che s’aspettava un libro di propaganda apertamente socialista, trovandolo meno temerario che non s’aspettasse, masticò il fiele in silenzio; e non lo sputò che in parte con la signora Bianchini madre, la quale fu la sola della casa a deplorare a voce alta che il buon successo letterario del figliuolo fosse dovuto a un soggetto simile. Oltreché l’indispettiva la ragazza, a cui la coscienza d’aver cooperato in qualche modo al lavoro, dava un’alterezza nuova, un sentimento lieto di sé, che le traluceva dagli occhi e pareva a lei un principio di ribellione, e quel fanciullone sciocco di suo padre, che non toccava più terra dall’entusiasmo, e veniva fuori da capo con certe matte idee rivoluzionarie, causa fra loro di dispute quotidiane interminabili; nelle quali, peraltro, ella aveva su di lui la superiorità d’esser stata sempre dello stesso pensiero. Per lei il libro di Alberto non era che un bel romanzo, una difesa ingegnosa d’una cattiva causa; quella processione delle piccole vittime del lavoro, sopra tutto, le pareva una pura e pretta fantasticheria. Suo marito s’indignava: diceva che era la schietta verità: citava un suo vecchio collega di carriera che, in un viaggio in Inghilterra, aveva visto nei mulini da cotone dei ragazzi di otto anni lavorar per quattordici ore nell’aria pregna di peluzzi microscopici, che penetravano negli "organi respiratori" e li facevan morire di consunzione. In Inghilterra, in quella Inghilterra dove in un anno morivan per miseria o per mali trattamenti diecimila settecento bambini, dove, nella sola Londra, quarantamila ragazzi delle scuole pubbliche andavano ogni giorno alla scuola senz’aver mangiato! - Cose che gridano vendetta davanti a Dio!
Ma la signora negava ostinatamente la credibilità di quelle cifre. Demagoghi, fabbricanti di statistiche, igienisti, eran tutti d’accordo, Dio sa con che fini, a incoraggiare il vagabondaggio, l’ozio e la petulanza della ragazzaglia del basso popolo, scioperata e trista per istinto.
- No, è la verità! - ribatteva il Bianchini, eccitato dal Barolo vecchio; - è un mercato infame! - e declamava come sue delle frasi del libro del figliuolo, citava, tendendo il pugno, dei nomi noti di sfruttatori spietati dei ragazzi, arricchiti e decorati. E dando un picchio sulla tavola gridava: - È tempo di finirla!
E allora sua moglie gli assestava un colpo terribile con la sua solita conclusione: - La settimana ventura dirai tutto il contrario.
Anche dagli amici di casa Alberto ebbe giudizi assai differenti. Il Moretti, benché fosse in quei giorni tutto infatuato d’un bello studio del Garelli sulla "coltivazione delle patate di gran reddito" in cui vedeva quasi la soluzione della quistione sociale, gli parlò del libro con entusiasmo; e congratulazioni cordiali gli fece pure il Cambiasi, ma con un viso pensieroso, come se presentisse che la soddisfazione del buon successo gli sarebbe stata attossicata assai presto. Aveva letto il libro anche il vecchio Geri; ma non lo giudicò: gli disse soltanto, incontrandolo per la scala: - Senta: l’unico modo d’impedire che i ragazzi siano sfruttati e maltrattati è quello di non farne; fin che se ne getteranno dei mucchi sul mercato, avverrà quel che avviene, e di peggio: la soluzione del problema è una sola! -; ma si rallegrò quando Alberto gli rispose che il socialismo si sarebbe dovuto occupare anche di quella quistione, considerando il malthusianismo, fino a un certo punto, come un alleato; e che nella società futura, in cui sarebbe stata regolata la produzione e controllata la quantità del prodotto dal popolo, questo avrebbe potuto facilmente moderare su quella i propri accrescimenti, per conservare inalterata la sua condizione economica. Quanto al Geri giovane, non gli occorse d’averne il parere per via diretta: egli lo vide riflesso sulla faccia del figliuolo, che incontrò al Liceo, la quale gli disse tutta la pietà e lo sdegno e la nausea che doveva aver destato nel padre l’opera sua. Degli altri suoi conoscenti e colleghi non vide in quei primi giorni che pochissimi, alcuni dei quali lo salutarono in fretta, per non avergli da fare dei complimenti, altri non gli parlarono del libro che sotto l’aspetto letterario; ed era evidente che ci sospettavano un’insidia, un modo subdolo di rientrare nel socialismo sotto la coperta d’un sentimento di pietà, che nessuno poteva biasimare, e ch’eran tutti maravigliati della sua audacia; e più di tutti il suo vecchio Preside, un buon uomo grasso e pacifico, da cui s’accorse d’esser guardato furtivamente, con l’occhio di chi guardi una cassa di nitro-glicerina. Ma il più strano dei giudizi fu quello dato dalla signora Cambiasi, e riferitogli da sua moglie. Essa non aveva letto il libro che a metà e n’era rimasta molto stupita. Ma come! Ma lei andava tre volte la settimana a prender il suo figliuolo più piccolo alla scuola municipale, dove c’erano cinquecento ragazzi di tutte le condizioni: ebbene, i più robusti, i più floridi eran quelli della povera gente: si vedevan dei faccioni! E avevan dei denti bellissimi, appunto perché non mangiavan tanti dolciumi. Dove mai il signor Alberto aveva visto tutte quelle cere da ospedale? - Del resto, cara Giulia, il libro è bello; ma è un peccato che non sia in versi.
Dopo una settimana dal loro ritorno a Torino, Alberto e sua moglie ebbero la visita della coppia Luzzi. Rottura fra gli amanti non c’era stata: la partenza per la campagna aveva naturalmente interrotto la relazione, che poteva esser ripresa; e la signora, infatti, presentò ad Alberto un viso amichevole, in cui, sotto al sorriso cordiale del saluto, egli vide un punto interrogativo. Ma non vide che ci fosse in questo né una sollecitazione né un desiderio, come se dicesse semplicemente: - Se ti pare... Se no, a piacer tuo. - E avendole risposto nello stesso modo la stessa cosa, ma col "no" più accentuato, notò in lei una certa rassegnazione serena, che gli destò il sospetto d’esser già sostituito. E sospettò più forte quando intese che essa aveva lasciato la campagna ai primi di settembre per venire ad assistere il marito incomodato dalla gotta, e non s’era più mossa da Torino; che gli parve troppa bontà da parte sua. E a quel sospetto gli prese una stizza, un rodimento di gelosia sensuale, attizzata da mille ricordi improvvisi, che gli diedero una tentazione rabbiosa di ricominciare e insieme una voglia impaziente di esser solo con lei per scrutarla e, quando si fosse accertato della verità, sferzarla in viso con quattro parole spietate. Ma dopo avergli fatto le più calde congratulazioni per il suo libro, essa andò nella stanza accanto con sua moglie, e invece del piacere acre che sperava con la moglie, egli dovette trangugiarsi una mezza impertinenza del marito. Senza guardarlo in viso, com’era suo uso, e lisciando i minuscoli baffetti neri sulla sua faccia di scolaretto infrollito, costui gli disse "francamente" che non aveva né avrebbe letto il suo libro. - Perdoni, signor professore, la mia franchezza. Io ho il miglior concetto possibile del suo ingegno e delle sue intenzioni; ma, per deliberato proposito, non leggo alcun libro che abbia attinenza, stretta o lontana, con la così detta quistione sociale. Siccome per me la quistione sociale non esiste, così considero tutta la letteratura che vi si riferisce come pura opera di fantasia, e le letture di fantasia, oltre che disdicono a un uomo della mia professione, non convengono più alla mia età. Non si ha mica per male di questo? Come lo dico a lei, lo dico a tutti. - Il Bianchini sentì un tal dispetto che fu tentato di dirgli in faccia quello ch’ei non doveva sapere. - Perché me ne dovrei aver per male? - gli rispose. - Non si può pretendere il giudizio d’un quadro da chi ha avuto la disgrazia di perder la vista - Ah! è mordace, è mordace! - esclamò l’altro, e con l’aria di compassione con cui si storna un malato dal discorso della sua malattia, parlò di punto in bianco d’un’altra cosa, mentre Alberto fermava risolutamente nell’animo di scoprire il suo successore.
Ma questo ed altri suoi pensieri furono portati via da un nuovo concetto, nato e fecondato nell’animo suo dalla calda gioia della vittoria: il concetto d’un libro diretto a comporre nella comprensione chiara e nel sentimento vivo dell’idea socialista, i dissensi stupidi e miseri che dividevan la classe lavoratrice, ed eran la sua debolezza e la sua vergogna; al qual fine non gli bastava più di studiar gli operai ad uno ad uno, in casa propria, come originali psicologici; ma doveva osservarli riuniti, imparar le relazioni che corron tra di essi, studiare le manifestazioni pubbliche e spontanee dell’animo loro. E questo studio gli agevolavan molto il Barra e il Calotti, amici e conoscenti di centinaia di lavoratori. Egli cominciò ad assistere, rincantucciato nell’ombra, a riunioni di Società, ad intervenire ad adunanze in cui si discuteva l’istituzione d’una Camera di lavoro, a frequentar sedi di Cooperative, a recarsi alle conferenze che tenevano operai colti intorno a quistioni strettamente confinate nei loro interessi materiali. Conosciuto da alcuni, attirò a sé ben presto molti altri, si trovò in mezzo a gruppi all’uscita, strinse nuove relazioni, ebbe in poco tempo delle schiere di conoscenti quasi in ogni corpo d’arte o di mestiere. E tutto gli riuscì più facile e più gradevole per l’alito vivo di simpatia che si sentì spirare dintorno. E, infatti, la sua gioventù, la sua bontà naturale, a cui la contentezza dava come un’irradiazione esteriore, una certa sua maniera ritrovata senza sforzo, che mostrava quasi incoscienza assoluta della propria condizione sociale, e la sincerità trasparente, limpidissima d’ogni sua manifestazione dell’animo, in cui neanche l’occhio più sospettoso poteva scorgere un’ombra d’ambizione non generosa, esercitavano un influsso benevolo su quasi tutti. Lo sguardo dei più rozzi prendeva un’espressione sorridente posandosi sulla sua bella e altera testa bionda, che aveva qualcosa di paterno per i più giovani, di fraterno per i coetanei, di filiale pei vecchi; gli animi gli si aprivano spontaneamente; e le confidenze, le notizie, i fatti che cercava gli venivano da ogni parte in tal copia, ch’egli non ne avrebbe potuto raccogliere di più di quel che fece in un tempo brevissimo, se fosse andato come il pastor Gohere e la signora Wettstein a lavorar per molti mesi nelle fabbriche sotto finti panni e finto nome. Non aveva vissuto ancora, da che era uomo, una vita così intensa, così feconda per il cuore e per la mente, e di così lieta e sicura coscienza, come quella che viveva in quei giorni.
Di queste sue escursioni nella classe operaia non fece parola, da principio, a nessuno della sua famiglia; ne parlò soltanto al Cambiasi, il quale, dopo averlo ascoltato in silenzio, parve che gli volesse dare un avvertimento; ma non lo diede, stimandolo forse inutile per allora, e riserbandosi ad arrestar l’amico a un punto più basso della china, dove teneva per certo che sarebbe ruzzolato. E di questo suo silenzio Alberto s’adontò, più che d’un’aperta disapprovazione, credendolo un segno di amicizia intiepidita; ma per poco, poiché l’ardore dei suoi nuovi studi non gli lasciava fermare il pensiero in altra cura. Tra le prime cose, con viva curiosità, egli cercò di conoscere a che punto di maturità si trovasse nella maggioranza degli operai l’idea socialista. E le sue prime scoperte, in verità, furono scoraggianti. Pochissimi eran quelli che avessero un concetto della dottrina, non è da dir largo e netto, ma tale soltanto, da poterlo spiegare ad altri, comunque fosse; non ne avevano i più che un barlume d’idea, e trasformata per modo, da non poterla più riconoscere, confondendo tutti in una strana maniera le verità dimostrate con le più ardite ipotesi, e illudendosi che il ritenere a mente una formula e il comprenderla fosse tutt’uno. La critica stessa, pur così logica e chiara, dell’attuale modo di produzione e di ripartizione dei beni, perno del socialismo scientifico, riconobbe che in gran parte l’ignoravano; che ne ripetevano soltanto, e neppure esatte, le conclusioni più elementari; e che sarebbero stati a due doppi più malcontenti e irritati, se avessero conosciuto i mali dello stato presente, quali dai nemici stessi delle loro aspirazioni erano confessati e descritti. Ma un sentimento vivo trovò in quasi tutti, che li volgeva al socialismo con altrettanta forza, se non maggiore, che il desiderio d’un miglioramento nella vita fisica: una coscienza amara della inferiorità sociale del loro stato, della loro condizione di strumenti, sottoposti alla volontà o al capriccio di privati; un bisogno di maggior dignità e libertà di spirito; un’aspirazione alla cultura, all’educazione, a tutto ciò che li separa, più che la disuguaglianza economica, dalle classi superiori. E questo sentimento, più forte negli operai socialisti che negli altri, egli notò che faceva di loro una specie d’aristocrazia dei lavoratori, sdegnosa, in gran parte, dei piaceri grossolani e delle maniere volgari dei più, come della cagion prima del disprezzo in cui si lagnavano d’esser tenuti tutti dalla borghesia.
Ma anche nel solo giro dei socialisti, egli trovò una grande varietà di sentimenti e di idee. Di fronte ai diffidenti inconciliabili, che per essere stati delusi da troppi politicanti in soprabito, volevan respingere dal loro partito, come infetti di tabe borghese, anche i più poveri impiegati, e odiavano fin l’ombra del cappello a staio, v’erano quelli profondamente persuasi della necessità d’aver dalla loro degli uomini colti delle classi superiori, e facili perciò ad esagerar l’importanza d’ogni più piccolo atto o manifestazione che facesse un di essi in favore dell’idea socialista, e a pagarlo di gratitudine sproporzionata. Agli ingenui, della natura del Calotti, fiduciosi in una prossima o lontana rivoluzione o trasformazione sociale spontanea, che avrebbe stabilito davvero la prosperità, l’eguaglianza e la concordia fra gli uomini, eran frammisti molti altri, i quali, benché socialisti, credendo che un tal mutamento fosse impossibile, che ci sarebbero stati sempre poveri e ricchi e servi e padroni, si restringevano a volere e a sperare un miglior ordinamento del lavoro e una più equa distribuzione della ricchezza, in modi e forme che non determinavano; ed altri ancora, d’animo più risentito e impaziente, che volevano una rivoluzione, non per gran fede che avessero in un miglioramento durevole del proprio stato, ma per semplice spirito di rappresaglia, per rifarsi nella licenza sfrenata della vittoria, fosse pure momentanea, delle privazioni e dell’avvilimento patiti per tanti anni. V’erano i socialisti in stato d’entusiasmo continuo, che vivevano quasi unicamente di quell’idea, che non mancavano a una riunione, che dedicavano alla propaganda, da anni, tutti i loro ritagli di tempo, con uno zelo che nessun disinganno o contrarietà intiepidiva, e i socialisti intermittenti che disertavano ogni tanto le file, e stavan dei mesi senza farsi vedere, dimentichi o svogliati d’ogni cosa, e poi vi tornavano più ardenti di prima, per disertarle da capo, spinti alla diserzione e al ritorno dalle più futili cause. C’erano quelli che, per sentimento di dovere, s’adoperavano ancora per il partito, ma che, in fondo, scoraggiati dalle discordie della loro classe e dall’enormità degli ostacoli, non avevan più fede; e quelli che, sebbene trascurati ed inerti, serbavano una profonda certezza che la causa socialista avrebbe trionfato in ogni modo, per forza delle cose, anche senza la cooperazione diretta e faticosa della classe più interessata a farla trionfare. E a molti soggetti singolarissimi, che, miti di temperamento, ragionevoli e misurati nella loro vita ordinaria, nella sola idea socialista diventavan violenti, temerari, intrattabili, come per una trasformazione improvvisa della loro natura, facevan contrapposto altri non pochi, a cui appariva così evidente la necessità della moderazione, della disciplina di classe, dei procedimenti cauti e graduali, che tenevano i violenti per pazzi da legare, e li odiavano come i peggiori nemici della loro causa.
Varietà e contrasti non meno singolari egli scoperse fra loro in ordine alla cultura e alle facoltà della mente. Sopra tutti gli altri lo attirarono gli oratori, fra cui trovò, come nelle classi culte, i retorici, i semplici, i concisi, gli evidenti, gli arruffoni; alcuni eloquenti davvero, dotati d’una sicurezza di parola mirabile; altri a cui si vedeva nella fronte sudante lo sforzo febbrile e doloroso del pensiero, corrente qua e là alla caccia di letture e di rottami di frasi letterarie; dei loici accaniti, degli argomentatori d’una sottigliezza curialesca, dei divagatori nebulosi, che nessuno capiva, degli affastellatori di citazioni, dei parlatori rozzi, ma pratici e lucidi, che con quattro parole rimettevan l’ordine nelle discussioni più imbrogliate; non pochi agilissimi nelle controversie, di cui tutti si dilettavano, ma inetti a fare un discorso filato, anche brevissimo; molti, che al suono della propria parola e alla vista dell’uditorio, s’eccitavano al punto da mutar viso affatto e da parer presi d’un accesso d’epilessia; cert’altri, freddissimi, che non si turbavano per alcuna interruzione e ripetevano cento volte lo stesso argomento, facendo l’atto di chi batte un chiodo, con la monotonia ostinata dei pazzi, e non pochi che, per far propaganda, ripetevano in modo inappuntabile dei ragionamenti brevi ed efficaci, delle pagine di catechismo rivoluzionario, imparate a memoria come preghiere; recitate le quali, non avevan più nulla nel sacco. Scoperse anche in parecchi delle facoltà embrionali di scrittori, che si manifestavano in immagini strane, ma potenti, in paragoni, soprattutto, nuovi e felicissimi, tratti dai loro mestieri, e che gli facevan pensare quanto sarebbe riuscito originale e istruttivo un nuovo giornale come il Bon sens, fondato a Parigi nel 1848, aperto a tutti gli scritti d’operai, qualunque fossero. Ma lo stupì più di ogni altra cosa la varietà disparatissima delle predilezioni e dei modi di lettura che rinvenne fra di loro, poiché c’era chi martellava da anni sopra un libro solo, anche un libercolo, come se ci trovasse condensata l’enciclopedia; chi leggeva un po’ di tutto in furia e alla rinfusa, senza curarsi d’intendere; chi raccoglieva con gran diligenza articoli di giornali relativi a una sola quistione; chi non leggeva che opuscoli infocati e terribili, chi preferiva i libri di socialismo mistico, chi aveva in odio le declamazioni sentimentali e si atteneva strettamente alle quistioni di organizzazione e di salario, e chi non leggeva altro che i giornali appesi ai muri od ai chioschi, e chi non leggeva nulla di nulla, contentandosi di raccattar delle briciole d’idee e di notizie dalle conversazioni dei compagni. V’eran poi nel numero dei più colti quelli che del poco che sapevano avevano un grande concetto e sentivano smodatamente di sé, e quelli che, avendo della vera cultura un’idea quasi fantastica, si credevano anche più inculti che non fossero, e n’avevan vergogna, e si scoraggiavano; quelli in particolar modo che, essendo stati fuori d’Italia, avevan potuto notare quanto fossero più avanti di loro, sulla via dell’educazione socialista, gli operai di altri paesi. Tutti quanti, infine, formavano un certo numero di gruppi, di ciascuno dei quali era centro uno degli operai di maggior ingegno e di maggior cultura, o uno di cultura e d’ingegno minore, ma d’animo più ardito e più incline all’azione, o più autorevole per sacrifizi fatti e persecuzioni subite in pro della causa, e fra gli uni e gli altri c’era rivalità o dissenso manifesto od occulto, e serpeggiava in ciascun gruppo un senso di diffidenza pel capo, un sospetto di veder sorgere nel compagno il borghese, l’ombra d’un padrone, una piccola gloria pericolosa all’eguaglianza, una febbre di gelosia crescente in alcuni a poco a poco, fino a renderli nemici dichiarati d’ogni superiorità, furiosi contro ogni più lieve apparenza d’ambizione, disposti piuttosto a veder rovinare la causa comune che a tollerar che un compagno alzasse il capo d’un dito sopra la loro fronte.
Uno di quelli che destavan maggior gelosia Alberto seppe per varie vie che era il Barra, e che fosse in odio a molti, e specialmente agli anarchici, glielo disse aperto il Baldieri, ch’egli trovò una sera nella sede della Lega metallurgica, nel punto in cui si scioglieva in gran disordine un’adunanza messa sottosopra da lui stesso, con una violenta e implacabile opposizione fatta a tutti gli oratori e a tutte le proposte. Non fu il Baldieri, però, che andò incontro ad Alberto; finse anzi di non vederlo; dovette andarlo a cercar lui in mezzo a un crocchio di compagni, contro i quali inveiva. E quegli se la prese subito con lui e col Barra, che aveva visti insieme varie volte. - Se non frequenta che operai di quella risma - gli disse, - farebbe meglio a stare coi suoi borghesi. - Il Barra, per lui, era un miserabile ambizioso, un faccendiere d’elezioni, un feto puzzolente di consigliere comunale, che si faceva scala delle spalle dei compagni per salire nella borghesia. E l’accusò d’aspirare a un impiego in una Società d’assicurazioni, dicendo che, frattanto, traduceva dei bilanci dall’inglese per uno dei capoccia di quella ladronaia, al quale leccava le scarpe. Alberto fu scosso da quelle parole: traduzioni dall’inglese, un capoccia d’una Società d’assicurazioni: doveva essere il Luzzi; e subito gli si legarono nella mente il Barra e la signora... Ma dissimulò il suo pensiero, e difese l’amico risolutamente, dicendo che lo stimava un uomo onesto e fermo, che se anche avesse cercato un impiego, non voleva dire che rinnegasse i suoi principi, e che era un dolore il vedere i migliori elementi della classe operaia, astiandosi fra loro, far gl’interessi della borghesia che volevano abbattere. Il Baldieri lo guardò con due occhi così fatti, ch’egli temette per un momento che lo volesse agguantare pel collo. - Ma sono i socialisti, - disse, serrando i denti - che fanno gl’interessi della borghesia! - Eran loro, quella razza pestifera di legalitari, parolai addormentatori, che, se non ci fossero stati gli anarchici a tener viva la fiamma, avrebbero già visto il loro socialismo cascare in terra e sbriciolarsi come un carcame putrefatto. - Razza d’ipocriti, predicatori d’eguaglianza in pubblico, leccapiedi delle autorità a quattr’occhi, servili e paurosi nel sangue, che ci calunniano in tutti i modi, e hanno l’impudenza di dire che serviamo alla loro causa perché, col nostro confronto, li facciamo parer moderati e accettabili alla borghesia! Si continui a sfregar con loro e diventerà più borghese di prima. - Avendo alzata la voce, qualcuno si cominciava ad avvicinare, quando il Calotti, per fortuna, che da un po’ di tempo badava al colloquio con occhi inquieti, lo venne a levar d’impiccio col pretesto di fargli visitare il locale. - Ci riparleremo -, disse Alberto. - Sarà tempo perso -, rispose l’anarchico.
Alberto cercò il Barra il giorno appresso con viva impazienza e, al primo vederlo, nell’atto stesso che osservava nella sua persona non so che di lindo e di lisciato che gli pareva non avesse per l’addietro, gli fece con arte una serie di domande slegate, che lo condussero a nominargli il signore per cui traduceva. Era il Luzzi. - Conosce anche la signora? - gli domandò. Quegli rispose in fretta che l’aveva vista qualche volta, e mutò discorso; ma Alberto vide passare un lampo nei suoi occhi, che gli tolse quasi ogni dubbio, e ne provò un senso d’umiliazione per sé e di disprezzo per la signora così amaro e violento, che ne restò subito dopo maravigliato, e quasi sdegnato con se stesso. Ma come! Con tutte le sue idee d’eguaglianza, gli offendeva l’orgoglio a quel modo il pensiero che il suo successore fosse un operaio, - ed era un bel giovane, culto e di bei modi -, e la scelta della signora gli pareva un così gran vituperio? E perché mai? Eran dunque così vivi ancora nell’animo suo i pregiudizi e le borie del borghese? E non sarebbe riuscito mai a liberarsene, a esser logico, a sentire come pensava? Eppure, gli durò così vivo il risentimento dell’orgoglio che, per quietarlo, si afferrò alla speranza che il suo sospetto fosse infondato, e, preso un pretesto qualsiasi, andò al più presto in casa Luzzi, al fine di rassicurarsi. Trovata la signora sola per un momento, tagliò d’un colpo il primo discorso, e le domandò a bassa voce, fissandola: - Come mai suo marito ha preso per traduttore un socialista?
La signora ebbe quell’istantaneo dilatamento degli occhi che è proprio delle persone colte in fallo. Poi rispose con franchezza: - Ma non lo sa. Glie l’ha proposto un impiegato dell’ufficio: non l’aveva mai inteso nominare. Non lo terrebbe un minuto se lo sapesse.
Disse però questo con quel sorriso singolare ch’egli aveva già notato in lei altre volte, quando parlava delle idee di suo marito.
- E perché lei non glie lo dice? - domandò Alberto.
- Perché in quest’affare io non c’entro.
- Mi può giurare che non c’entra per nulla?
- Ma, signor Alberto -, rispose la signora con certa severità amorevole - con che diritto mi chiede dei giuramenti?
Alberto guardò quegli occhi neri e quel neo graziosissimo; gli sorsero in mente dei ricordi, gli balzaron davanti delle immagini: fu un momento incerto tra il darle un bacio nel collo e dirle un’impertinenza sul viso. Gli scappò l’impertinenza.
- Ora dunque -, le disse - lei ha delle idee più avanzate di me: è per la socializzazione della donna.
Si morse subito le labbra, sentendo d’aver detto troppo. Ma invece delle parole sdegnose che s’aspettava, quella gli disse piano, con accento di affettuoso rimprovero: - Oh Alberto... questo non è generoso.
Quell’umile dolcezza gli toccò il cuore: si pentì ed ebbe pietà di lei: gli parve buona, e più bella. Guardò intorno, se non venisse nessuno, e poi le disse a bassa voce, caldamente: - Ritorni al socialismo di prima.
Essa rispose un "no" argentino e netto come il suono d’un tasto di pianoforte percosso, e soggiunse sorridendo, con uno sguardo molto espressivo: - Non son comunista.
Un colpo di tosse del signor Luzzi, che strascicava i piedi nella stanza accanto, troncò la conversazione. E Alberto restò per tutto quel giorno con la bocca amara. Ma si consolò poi facilmente, proponendosi di fare oggetto d’uno studio ameno e tranquillo la successione delle cascatelle che la signora avrebbe continuato a fare, senza dubbio, giù per la scala rivoluzionaria, con la vaga speranza di vederla finire un giorno in qualche scandalo aperto, che sarebbe stato una giusta vendetta presa dal socialismo sul marito che gli faceva la peggior delle ingiurie: quella di negar che esistesse.
E continuò, con nuovo ardore, le sue visite agli operai, cercando quelli che eran sottoposti a fatiche più lunghe e più gravi, per studiare in loro gli effetti psicologici del lavoro eccessivo. Facendo queste ricerche trovò una sera alla Società dei muratori il Peroni, che si mostrò stupito di vederlo là, per quanto il suo viso impietrito potesse ancora mostrare stupore. Alberto gli rivolse la parola, rallegrandosi che fosse rientrato nella Società. Ma no, non c’era rientrato: c’era venuto soltanto a cercare un compagno. E detto questo, guardò Alberto con un sorriso velato di compatimento per la stramba idea, intuita da lui vagamente, che doveva averlo condotto in quel luogo. Il Bianchini capì quel sorriso e, indispettito, voltò le spalle. Ma ne trovò molti altri, molti di più ch’ei non s’aspettasse, eguali per ogni rispetto al Peroni, che non avevano alcuna speranza perché non eran più capaci d’alcuna idea nuova, che parevano istupiditi dal lavoro macchinale e uniforme a cui attendevano da anni ed anni; il quale non era più in loro, come dicono i fisiologi, di pertinenza del cervello, ma del midollo spinale. E ne trovò parecchi che avevan coscienza del loro stato, che, facendo degli sforzi per capir certe cose, s’addoloravano di non riuscirvi, uscivano in imprecazioni rabbiose contro la propria ignoranza, chiamavano se stessi bestie e rimbambiti, e rinunziavano quasi di proposito al pensiero, riducendosi a vivere come la rana a cui son stati tolti i lobi cerebrali. E capì allora che molti non andavano a riunioni e a conferenze dei loro compagni perché, per quanto fossero piani e semplici i conferenzieri, dovevan fare una fatica enorme per seguirne i ragionamenti, e bastava una frase, e talvolta una sola parola, non compresa nel loro ristrettissimo vocabolario, ad arrestarli nel buio, dove non riuscivan più a ritrovarsi. I più di questi eran fra gli operai addetti a lavori monotoni. Egli ne conobbe alcuni che avevan lasciato l’antico mestiere e s’eran dati a lavori più faticosi e meno retribuiti non per altro che per sottrarsi alla eterna insopportabile uniformità dei movimenti muscolari, a cui li condannava la division del lavoro in una grande manifattura, e che aveva destato in loro, alla lunga, un abborrimento invincibile. Egli comprese allora quanto fosse ingiusto il far rimprovero a certi operai di non "amare il lavoro" nel senso e nel modo che noi amiamo il nostro, capì dai loro discorsi la tortura della fatica accoppiata alla noia, la tristezza delle lunghe giornate nelle officine oscure, tra uno strepito assordante e continuo, l’aspettazione interminabile del suono liberatore della campanella, il sospiro doloroso dell’anima verso la domenica, per cessar ventiquattr’ore d’esser l’appendice animata d’una macchina, per essere un uomo per un giorno. E riconobbe come nella maggior parte non fosse che sonnolenza, atrofia morale, prodotta da estenuazione di forze e da un lunghissimo tedio accumulato, quella che par rassegnazione ragionevole alla propria sorte; si accertò che non era se non incapacità o ripugnanza allo sforzo intellettuale necessario per comprendere le nuove idee, quella che si scambia con indifferenza o avversione al socialismo fondata sopra una persuasione contraria; e si persuase che non nasceva, nei più, da pigrizia né da sollecitudine della propria salute il desiderio di una riduzione delle ore di lavoro, ma da un reale imperioso bisogno di vivere un po’ di vita del pensiero, di avere il tempo di mescolarsi alla vita del mondo, di rompere con qualche sosta più lunga quella fuga quotidiana dalla macchina alla pentola, dalla pentola al letto, dal letto alla macchina, che soffoca pensieri, affetti, immaginazione, coscienza, ogni cosa.
Poi, continuando a interrogare e a ragionare con molti, fece delle osservazioni curiose intorno al modo di pensare e di sentire della classe operaia per rispetto alle classi superiori. La trovò a questo riguardo, divisa in due ordini, assai discordanti tra loro. Molti, che avevan della società attuale un concetto non meno incompiuto ed oscuro di quel che avessero del futuro stato socialista, giudicavano i borghesi, i signori come una razza a parte, tristi e malefici per istinto, tutti coscienti, in fondo, dell’iniquità delle loro usurpazioni; e non credendo, non immaginando nemmen le virtù che pur sono tra loro, le vite consacrate al bene, i molti cuori che soffrono dei dolori di tutti, e le innumerevoli amarezze e miserie che si celano sotto le apparenze dell’agiatezza contenta, non vedevano in alto che vizio, egoismo, furor dei piaceri, un’orgia inconturbata e perpetua di parassiti senza cuore e senza coscienza. Altri invece, i men numerosi, ma i più colti, avevan della borghesia un concetto più conforme alla verità, la riconoscevano come un prodotto necessario dello svolgimento della vita sociale, e odiavan la classe, non le persone, giungendo fino a dir francamente che, messi al posto dei borghesi, essi avrebbero pensato e operato tal quale come loro. Ma eran logicamente concordi gli uni e gli altri nel non professare alcuna gratitudine alle classi superiori per quanto esse facevano in pro delle povere, perché non si ha il dovere d’esser grati a chi, beneficando, non fa che rendere ai beneficati una minima parte di quel che loro ha usurpato ed usurpa continuamente. Anche negli operai più incolti egli trovò una vaga intuizione del fatto, che la carità pubblica non è che un mezzo di risparmiare una parte delle spese di produzione alla ricchezza che compra il lavoro e lo impiega, un atto con cui la società riconosce che i salari che ella dà agli operai non bastano a provvedere ai bisogni della vecchiezza, all’educazione dei figliuoli, alle infermità, alle disgrazie. E si stupì di trovare in molti, oltre a questa, una fine intuizione d’una quantità d’abusi, di ingiustizie della legge, persino della immoralità mascherata di molte operazioni ed arti del commercio finanziario, di cui li credeva ignoranti affatto, come di cose d’un altro mondo. Trovò dei dilettanti di processi scandalosi di faccendieri e di banche, degli "specialisti" che conoscevano le sorgenti sporche della fortuna di molti loro concittadini, che segnavano a dito i figliuoli ricchi e rispettati di padri usurai o falliti, che indicavano le palazzine guadagnate con un colpo fortunato alla Borsa, e sapevan nomi, gesta ed imbrogli di deputati affaristi, come gazzettieri di professione. Alcuni serbavano in tasca e cavavan fuori a ogni proposito dei giornali vecchi che indicavano i millionari pensionati dal Governo con ottomila lire, o dicevano le somme enormi profuse da municipi dissestati in festeggiamenti adulatori, o nominavano i professori d’Università che riscotevan lo stipendio senza fare una lezione in un anno, o commentavano le gratificazioni di centomila lire date ad alti impiegati di amministrazioni ferroviarie, quando si facevano aspettare per anni dei miseri sussidi ad orfani e vedove supplicanti di povere guarda-eccentriche, che, lavorando diciotto ore al giorno per sessanta lire al mese, s’erano accorciata la vita e avevano ingrassato gli azionisti. In tutti, poi, trovò l’animo offeso dallo spettacolo del lusso sfacciato e dell’ozio onorato e tripudiante, dal disprezzo mal dissimulato del lavoro umile e della povertà onesta, dalle buone promesse fatte a loro mille volte e mille volte tradite, dalla mala fede della stampa, carezzevole con essi nei momenti di pericolo, obbliosa a pericolo svanito, indifferente od ostile agli scioperi più ragionevoli, alleata della polizia anche contro i disordini provocati, armata sempre e combattente a difesa dei suoi banchieri protettori e degli interessi di classe dei suoi abbonati. E anche più vivo di questi sentimenti, e comune anche tra i più miti, riconobbe uno sdegno amaro per l’abuso della minaccia, per l’ostentazione spavalda della forza pubblica, per le sfrontate violazioni della libertà individuale, per la brutale prontezza con cui s’appuntavan loro contro il petto baionette e pistole ad ogni ombra di manifestazione, ch’essi vantassero, in nome della propria classe, anche con gl’intenti più pacifici; ciò che affermava in loro l’idea d’essere temuti e odiati come nemici naturali della società, e accresceva nel loro animo il rancore contro di questa, in proporzione della paura che s’accorgevano d’ispirarle, e che tenevan per segno e prova della coscienza della sua iniquità e della sua debolezza.
Quello che Alberto desiderava sopra ogni cosa era di conoscere quale diffusione avesse già acquistata il socialismo nella classe lavoratrice, e in che misura s’andasse propagando di giorno in giorno. Ma a questo riguardo non poteva che prendere un abbaglio, poiché quelli che gli eran presentati dai suoi quattro o cinque amici operai, o che venivano a lui spontaneamente, eran tutti, più o meno, affigliati al socialismo, e vedevano il partito a traverso a una lente d’ingrandimento. V’era anche un buon numero, tra quelli che gli s’avvicinavano, d’anarchici; ma erano i più temperati del partito, o per indole o per incertezza; anarchici evoluzionisti, che s’accordavano facilmente con tutti, o socialisti che si chiamavano anarchici, non perché credessero realmente nella possibilità d’una società anarchica, ma perché appartenevano, per ragion di natura, all’avanguardia rivoluzionaria del socialismo, o perché avevano abbracciato l’idea dell’anarchia, non per effetto di persuasione, ma per incapacità di comprendere, causa l’insufficiente cultura, la dottrina collettivista. Gli anarchici schietti e violenti, inesorabilmente sdegnosi d’ogni fornicazione coi borghesi, in qualunque aspetto questi si presentassero, rifuggivano da lui per antipatia; i giovani operai spensierati, dati al gioco, al vino, alle donne, non gli si avvicinavano per indifferenza; e perché lo vedevano attorniato di socialisti, lo scansavano anche tutti quelli che i socialisti chiamavano con disprezzo "gli amici dell’ordine", la famiglia dei soddisfatti e degli ambiziosi, che credevan d’aver nella giberna il bastone di maresciallo, incatenati alle idee "capitalistiche" del diritto e della morale, amici infidi della loro classe, votanti con le schede scritte dai padroni, benveduti dalla polizia, ossequiosi con tutte le Autorità, pronti sempre a sventolare le bandiere delle Associazioni ad ogni arrivo di ministri. Non conoscendo tutta questa gran parte della classe operaia, egli si faceva illusione intorno alla forza del partito socialista; tanto più che, se non il suo movimento d’espansione, quello di rimescolio interiore era assai vivo. Vi si facevan continuamente dei vuoti, è vero, o di bravi operai che emigravano, o di altri che, ridotti sul lastrico dalle persecuzioni della polizia, rinunziavano alla lotta, o di furbacchioni che voltavan le spalle alla causa appena migliorata la propria sorte, o di ambiziosi delusi ed offesi, o di teste leggiere che altalenavano di continuo fra il socialismo moderato e l’anarchismo furibondo, spinti di qua e di là dalle compagnie diverse che frequentavano. Ma i vuoti eran riempiti man mano dai giovani, e cominciavano ad affluire piccoli impiegati, piccoli commercianti, commessi, maestri, studenti, e a prender animo gli operai governativi, timidi e perplessi fino allora, e coll’accrescersi degli elementi colti, si moltiplicavano i propagandisti valenti; alcuni dei quali, anche del ceto operaio, erano veramente ammirabili: uomini appassionati e intrepidi, spogli d’ogni ambizione personale, che conquistavano ogni giorno un compagno, scotevano gli inerti, perseguitavano i fedifraghi, spingevano a scappellotti i tentennanti a comprare i giornali del partito, portavan l’idea socialista fin nelle Società più restie, dove molti dei suoi più incaponiti nemici non osavan più, se non altro, di dichiarare apertamente l’animo loro. E così, confortato da questi fatti, eccitato dai discorsi pieni di fede di coloro che lo circondavano, non conoscendo l’agitazione delle altre provincie se non dai giornali del partito che la ingigantivano, egli s’induceva a credere facilmente le classi lavoratrici meglio preparate, il movimento d’evoluzione più rapido, gli ostacoli da superare molto men gravi di quel che fossero; e il suo entusiasmo fiammeggiava.
E quanto più andava allargando il cerchio delle sue conoscenze in quel mondo, tanto più gli pareva vasto, vario, strano, degno d’uno studio di tutta la vita. Egli vi trovava dei vecchi soldati feriti in battaglia, e dei feriti del lavoro in tutte le forme, storpiati, coperti di cicatrici, sopravvissuti a cadute spaventevoli, abbruciacchiati in incendi, scampati miracolosamente a rovine d’edifizi; dei reduci dall’America, passati per dieci mestieri, e per ogni sorta di prove sfortunate e di traversie tragiche, delle anime erranti, che avevan lavorato in ogni angolo d’Italia, per tornare a casa più nude di prima, avendo persin perduto il loro dialetto nativo in una confusione ridicola e miseranda di dieci dialetti: dei disgraziati che avevano attraversato dei lunghi periodi senza lavoro, digiunato per mesi in scioperi memorabili, sopportato delle prove d’angoscia e di disperazione solitaria, che avrebbero spezzato cento volte una fibra come la sua; e abbracciando col pensiero tutto questo cumulo di fatiche, di dolori, di pazienza, di coraggio, si esaltava in un sentimento di carità fraterna che, come il santo cristiano verso l’inferno più orribilmente piagato, spingeva lui di preferenza verso gli operai più bassi, lo faceva più affettuoso e più affabile coi più rozzi, coi più cenciosi, con quelli ch’eran premuti più in fondo dal calcagno della società nell’ignoranza e nell’avvilimento. Mai non aveva sentito così profondamente che per esser logico avrebbe dovuto affratellarsi in ogni cosa con loro, dare tutto l’aver suo per la propaganda, cessar di vivere da signore, discendere, insomma, di sopra alle spalle delle creature umane che voleva rialzare da terra; e con questo sentimento gli risorse in cuore più forte il desiderio, il bisogno di conquistar la ragione e di soggiogar la volontà di sua moglie, senza il cui pieno consenso non avrebbe mai avuto libera azione. E riprese a tentarla, dolcemente e con cautela, lasciando da parte la dottrina socialista, cercando soltanto d’infonderle un senso di simpatia e d’affetto per la gente che frequentava, ripetendole dei colloqui, descrivendole persone, raccontandole storie di lotte e di miserie, presentandole la classe lavoratrice nel suo vero e grande aspetto d’un mondo immerso nelle tenebre, che invocava e attendeva il suo sole; e qualche effetto s’accorgeva d’ottenere, poiché ella acconsentiva alle volte con una parola vivace e spontanea, e cominciava a pensare, e anche quando taceva, pareva ogni tanto che per la sua fibra un po’ molle passasse qualche fremito vivificante di quella simpatia universale a cui fino allora era stata chiusa.
- Hai ragione -, gli disse un giorno - Soltanto... non frequentare cattiva gente.
Alberto capì che alludeva a Maria Zara, e le domandò sorridendo: - Le donne socialiste, vuoi dire?
- Sì -, rispose - Sarà un pregiudizio, ma è il solo che non potrò mai perdere.
- Eppure -, ribatté Alberto - scommetterei che la tua santa Angiola Lariani, se è ancora viva, è socialista.
- Nel cuore, sì, forse; ma... non certo in maniera da attirar dei danni sulla sua famiglia.
Dette appena queste parole gli saltò al collo come per risuggellare la promessa, che gli aveva fatto il giorno della riconciliazione, di non contraddirlo mai più, ed egli la baciò negli occhi, dicendole: - Finirò a convertirti -, ed essa rise, e non disse di no. Non s’erano forse mai amati quanto in quei giorni. E nondimeno egli indovinava in lei una inquietudine, quasi un presentimento che quella pace non sarebbe durata, che qualche grande dolore le stesse sospeso sul capo.