Primo maggio/Parte seconda/IV

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Parte seconda - IV

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E ci ripensò a lungo nei giorni seguenti, agitato da un vivo sentimento di curiosità e d’incertezza. Quell’eco che ella faceva alla voce dell’animo suo era una manifestazione fatta ad arte d’una simpatia naturale, o esprimeva veramente, oltre a questa, un ordine di pensieri radicati nella coscienza e nel cuore? Arrestandosi alla seconda supposizione, divorato com’egli era dal bisogno d’una corrispondenza alle sue nuove idee, si sentiva spinto verso di lei da tale impulso, che l’avrebbe coperta di baci al primo incontro; e a quest’impulso stava per cedere, quando un fatto nuovo lo ritenne e lo sviò da quel sentimento. Essendosi sparsa fra i suoi amici e conoscenti la notizia del caso suo, gli vennero all’orecchio, per vie diverse, i loro primi giudizi; e questi lo riempirono di stupore, poiché da uomini della sua età, coi quali aveva tante altre opinioni comuni, egli s’aspettava tutt’altro. La causa prima e più ragionevole a cui gli pareva si dovesse riferire il suo mutamento: un desiderio sincero del bene, fondato sulla persuasione, acquistata studiando e meditando, della possibilità di conseguirlo, era la causa appunto che nessuno immaginava o ammetteva. Era una fantasia, un’ambizione, un dispetto; era qualunque altra causa fuori che quella, come se quella fosse una cosa contro natura. Il fatto riusciva così strano e inesplicabile, che, tra i più benevoli, alcuni stimavano che gli fossero attribuite calunniosamente idee che non eran sue, e che non potevano essere, avendolo essi conosciuto sempre come un uomo sensato ed onesto; altri, pure credendole sue, cercavano di attenuarle, e di scusarlo, come d’una mala azione; non pochi, anche, credevano a una sua momentanea alienazione mentale. E questa doveva essere una voce assai diffusa, poiché la signora Cambiasi, udendo un giorno sua moglie parlar con inquietudine delle nuove tendenze del marito, le disse con la sua ingenua bonarietà: - Perché non lo fai visitare dal dottore Morselli?... Quando son prese in tempo, certe fissazioni... - E che altri avessero la medesima idea egli lo sospettò dal sorriso mal dissimulato di maraviglia con cui, incontrandolo, lo guardavano, come si guarda una persona seria che si veda brilla per la prima volta. Nessuno gli esprimeva il proprio giudizio, né lo metteva su quel discorso; lo scansavano tutti con un riguardo compassionevole, fingendo d’ignorare la cosa, come si finge di non vedere la deformità fisica d’una persona a cui si vuol bene. Non avendo egli ancora manifestato pubblicamente la sua aberrazione, e credendosi dai più che fosse passeggiera, prevaleva ancora in tutti la benevolenza.

Trovò un’eccezione sola, dove l’attendeva meno, al Nuovo Circolo, nel gruppo d’amici che frequentava da anni, insegnanti, artisti, uomini d’affari, buontemponi agiati e cordiali, soliti a far cerchio a parte "nella sala rossa" dov’era stato sempre accolto festosamente, e da poco tempo soltanto aveva diradato le visite, perché era entrato nella compagnia il Geri figlio. Andato là una sera col proposito di esprimere francamente le sue idee, e con la speranza di avviare una discussione amichevole, egli vi trovò un’accoglienza così gelida e impacciata, dei visi così adombrati e dei sorrisi così falsi, da non potersi spiegar la cosa altrimenti che con l’influsso maligno del suo vicino di casa. Non gli rimase ombra di dubbio quando, sopraggiunto costui, che lo salutò con un inchino cerimonioso, egli osservò il rapido scambio d’occhiate scintillanti che fecero con lui tutti i presenti. E se n’andò poco dopo, col cuore un po’ stretto; ma non maravigliato d’altro che di non aver previsto quello che era avvenuto. Fra lui e il Geri c’era stata sempre un’antipatia della medesima natura di quella che correva tra lui e il suocero, ma anche più tesa, perché non l’allentava, come l’altra, una differenza grande d’età. Al Circolo stesso, le poche volte che s’eran trovati insieme, seduti sempre alle estremità opposte di una gran tavola, non s’erano mai scambiati che parole fredde o motti pungenti. Alberto aveva sempre visto lui soffrire d’ogni suo buon successo di conversazione, fingere di non sentire i suoi discorsi, disapprovare con un sorriso a fior di labbra ogni suo giudizio che non potesse fingere di non sentire.

In tanti anni che eran vicini di casa e conoscenti, non s’erano mai arrischiati, prima della disputa in casa del Bianchini padre, a una conversazione a quattr’occhi, tanto eran certi tutti e due che sarebbe stato loro impossibile di conversare senza contraddirsi, e, contraddicendosi, di farlo in forma cortese. Era una triplice antipatia, da bilioso a sanguigno, da affarista ad artista, da orgoglioso ad altero, spinta a tal segno, che si "sentivano" l’un l’altro prima di vedersi, si salutavano senza guardarsi, e si guardavano a vicenda, senza farsi scorgere, con una diabolica curiosità. Ma quest’avversione, che in Alberto era ravvivata ogni giorno dal figliuolo del nemico, scolaro suo, a cui vedeva riflessa in viso l’antipatia del padre, nel Geri era più forte per un’altra ragione, che Alberto ignorava. Undici anni prima, vedovo di fresco, egli aveva posto gli occhi addosso alla figliuola del Commendatore, vecchio amico di suo padre, sedotto a un tempo dalle sue forme e dalle sue buone cedole, e, benché non incoraggiato da lei, si tenea già sicuro d’afferrare il doppio tesoro, quando era saltato su quel professorino rosato, quello scrittorello invanito dai primi applausi del pubblico, e addio roba mia. Il colpo gli aveva fatto sanguinare l’orgoglio, e ad aggiungere al danno la beffa, eran venuti a stare in casa sua, dove la bella signora, incontrandolo e parlandogli spesso, gli teneva viva, senza saperlo, la fiammella dell’amor sensuale, e il bel signore, la rabbia. Questa era rimasta compressa, non di meno, molti anni, per non aver mezzo od occasione alcuna di espandersi, ed anche un po’ consolata dal veder le prime glorie dello scrittore svanire come fuochi fatui sotto il modesto ufficio d’insegnante. Ma ecco che, tutt’a un tratto, egli dava fuori col socialismo! Nessun’altra mattata del caro poeta avrebbe potuto procurargli una più dolce soddisfazione e ridestare insieme con maggior veemenza il suo antico malanimo contro di lui. Tutta la sua natura si rivoltava a quelle dottrine come a un nauseante veleno. Destituito del senso della pietà e della benevolenza, gli riusciva inconcepibile che questo potesse ascendere e dilatarsi in altri fino ad abbracciare dei millioni di esseri sconosciuti, e assumere la forza d’una grande passione; e chi l’ostentava, gli faceva l’effetto d’uno che mostrasse sollecitudine o dolore per i mali immaginati d’una supposta umanità d’un altro pianeta: non poteva essere che un ciarlatano matto o impostore. E il Bianchini, per lui, era l’uno e l’altro. Ciò lo confermava nell’idea che aveva avuto sempre, nonostante la buona armonia apparente dei due coniugi, che quella donna d’animo temperato e di buon senso, tanto somigliante a suo padre, fosse accoppiata male con un poeta squilibrato e leggiero, e che, alla lunga, sarebbe nato fra loro un disaccordo, dal quale egli avrebbe potuto trarre profitto. E non era tale da scoraggiarlo il contegno della signora, poiché, pur non dimostrando a lui una particolare simpatia, essa gli usava i riguardi dovuti a un uomo stimato e benvoluto da suo padre, e gli mostrava quella sfumatura di gratitudine pietosa che concede ogni donna a un suo aspirante deluso, da cui sappia o sospetti d’essere ancora desiderata. Così, con le speranze sulla moglie, gli era cresciuto l’odio contro il marito, una fiamma anticipata di quel grande odio che, nei giorni della violenza, spingerà i borghesi puri contro i borghesi socialisti assai più accanitamente che contro i socialisti scamiciati, e accenderà fra loro, nell’urto dei due eserciti, le mischie più feroci della battaglia. Uscito trionfante, quella sera della gran discussione, da casa Bianchini, egli aveva cominciato subito, il giorno dopo, a diffonder l’annunzio della metamorfosi del suo nemico, aggiungendo di suo tossico e fuoco a ogni parola di lui; e quando, la settimana appresso, tornando dalla scuola, il suo figliuolo gli riferì la notizia, intesa dal piccolo Giulio, della pubblicazione che stava preparando suo padre, se ne rallegrò come d’una non sperata fortuna. Il libro avrebbe fatto rumore, il suocero sarebbe andato sulle furie, la figliuola l’avrebbe tenuta dal padre... Ah! non l’aveva mai tanto desiderata! L’avrebbe voluta avere anche riluttante, con la forza e per la vendetta, per sfogare la sua bile contro di lui, per beffare e vilipendere nel marito quelle idee stupide, scellerate, funeste, a cui non poteva pensare senza fremere, e che qualche volta, quando leggeva quella sporca prosa del Rateri, rivoltandogli tutt’a un tratto lo stomaco e il sangue, lo facevano sputar sul giornale.