Prose della volgar lingua/Libro terzo/XXXIII

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Terzo libro – capitolo XXXIII

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Semplice e regolato è ultimamente nella quarta maniera di questa voce il fine, il qual sempre con la natía consonante del verbo, dinanzi la I posta, termina e con l’accento sopra esse, Udí Sentí; se non in quanto ha tale volta l’uso della lingua nelle prose la medesima I raddoppiata, Udíi Sentíi; come che Dante le recasse nel verso. Allo ’ncontro delle quali levarono d’alcun verbo non solamente della prima maniera, com’io dissi, ma delle altre ancora, i poeti alle volte la medesima I, che di necessità star vi suole, e Compie’ in vece di Compiei dissero. Non cosí lungamente fa bisogno che si ragioni della seconda voce di questo tempo, essendo ella solamente una in tutti i verbi, dalla terza loro semplice voce del presente tempo per lo piú formandosi in questa guisa, che vi si giugne una sillaba di tre lettere cotali STI; fuori che queste due Dà, Sta, che Desti e Stesti formano. Dissi semplice, in differenza di quelle che v’aggiungono la I o veramente la U, come s’è detto; perciò che queste due vocali raggiunte non entrano giamai in questa voce: Ama Amasti, Tiene Tenesti, Duole Dolesti, Legge Leggesti. E dissi ancora per lo piú, in quanto non cosí in tutto si formano le voci della quarta maniera, ché non Sentesti e Odesti, anzi Sentisti e Udisti si dice. Come che in Udisti e in tutte le altre voci di questo verbo, che in qualunque guisa si danno al passato tempo e a quello che a venire è, eziandio si muta di lui la prima lettera, che è la vocale O, e fassene U: Udí Udisti Udirono e Udito e Udirò e le altre. Di questa seconda voce è alle volte che se ne levano le due ultime lettere, non solo nel verso:

Come non vedestú negli occhi suoi
quel, che vedi ora,

e altrove,

Già non fostú nodrita in piume al rezzo;

ma ancora nelle prose: Ove fostú stamane poco avanti al giorno e Odistú in quella cosa niuna della quale tu dubiti.