LXVII. Sonetto della massara
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19 settembre 2008
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letteratura
<dc:title> Rime </dc:title>
<dc:creator opt:role="aut">Francesco Berni</dc:creator>
<dc:date>XVI secolo</dc:date>
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Rime - LXVII. Sonetto della massara Francesco BerniXVI secolo
LXVII. Sonetto della massara
Io ho per cameriera mia l’Ancroia,
madre di Ferraù, zia di Morgante,
arcavola maggior dell’Amostante,
4balia del turco e suocera del boia.
È la sua pelle di razza di stoia,
morbida come quella del leofante:
non credo che si trovi al mondo fante
8più orrenda, più sucida e squarquoia.
Ha del labro un gheron, di sopra, manco:
una sassata glie lo portò via
11quando si combatteva Castelfranco.
Pare il suo capo la cosmografia,
pien d’isolette d’azzurro e di bianco,
14commesse dalla tigna di tarsìa.
Il dì de Befanìa
vo’ porla per befana alla finestra,
17perché qualch’un le dia d’una balestra;
ché l’è sì fiera e alpestra
che le daran nel capo d’un bolzone,
20in cambio di cicogna e d’airone.
S’ella andasse carpone,
parrebbe una scrofaccia o una miccia,
23ch’abbia le poppe a guisa di salciccia;
vieta, grinza e arsiccia,
secca dal fumo e tinta in verde e giallo,
26con porri e schianze suvi e qualche callo.
Non li fu dato in fallo
la lingua e i denti di mirabil tempre,
29perché ella ciarla e mangia sempre sempre.
Convien ch’io mi distempre
a dir ch’uscisse di man di famigli;
32e che la trentavecchia ora mi pigli.
Fûr de’ vostri consigli,
compar, che per le man me la metteste
35per una fante dal dì delle feste;
credo che lo faceste
con animo d’andarvene al vicario
38et accusarme per concubinario.