Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Prefazione alla seconda edizione

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Prefazione alla seconda edizione

../Lettera dell'autore a N.Q. IncludiIntestazione 31 agosto 2016 100% letteratura

Lettera dell'autore a N.Q.



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Caedo cur vestram rempublicam tantam perdidistis tam cito?

Pomponio Attico, presso Cicerone, De senectute.



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PREFAZIONE

alla seconda edizione


Quando questo Saggio fu pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul medesimo furon molti e diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del quale l’autore ha professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori. Il tempo però ed il maggior numero han resa giustizia, non al mio ingegno né alla mia dottrina (ché né quello né questa abbondavano nel mio libro), ma alla imparzialitá ed alla sinceritá colla quale io avea in esso narrati avvenimenti che per me non eran stati al certo indifferenti.

Della prima edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e, ad onta delle molte richieste che ne avea, io avrei ancora differita per qualche altro tempo la seconda, se alcuni, che han tentato ristamparla senza il mio assentimento, non mi avessero costretto ad accelerarla.

Dopo la prima edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha pronunziati, ed ho cercato, per quanto era in me, di usarne per rendere il mio libro quanto piú si potesse migliore.

Alcuni avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá io non nego che nella prima edizione alcuni fatti ho omessi, perché li ignorava; altri ho taciuti, perché ho creduto prudente il tacerli; altri ho trasandati, perché li reputava poco importanti; altri finalmente ho appena accennati. Ho composto il mio libro senza aver altra guida che la mia memoria: era impossibile saper tutti gl’infiniti accidenti di una rivoluzione, [p. 4 modifica]e tutti rammentarli. Molti de’ medesimi ho saputi posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a quelli che giá avea narrati. Ad onta però di tutte le aggiunzioni fatte, io ben mi avveggo che coloro, i quali desideravano maggior numero di fatti nella prima edizione, ne desidereranno ancora in questa seconda. Ma il mio disegno non è stato mai quello di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, molto meno una leggenda. Gli avvenimenti di una rivoluzione sono infiniti di numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per questa stessa ragione, è impossibile che tra tanti avvenimenti non vi sieno molti poco importanti e molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi li ho trascurati, i secondi li ho riuniti sotto le rispettive loro classi. Piú che delle persone, mi sono occupato delle cose e delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse desideravano esser nominati; è piaciuto a moltissimi, che amavano di non esserlo. I nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è nominato che all’istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere e dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è tale, quale i tempi, le idee, i costumi, gli accidenti voglion che sia: quando avete ben descritti questi, a che giova nominar gli uomini? Io sono fermamente convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di sostituire ai nomi propri delle lettere dell’alfabeto, l’istruzione, che se ne ritrarrebbe, sarebbe la medesima. Finalmente, nella considerazione e nella narrazione degli avvenimenti, mi sono piú occupato degli effetti e delle cagioni delle cose che di que’ piccioli accidenti che non sono né effetti né cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono il modo di poter usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a riflettere.

Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad aggiugnere eran in minor numero di quello che si crede. Ragionando con molti di coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti, spesso mi sono avveduto che ciò che essi desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi desideravano nomi, [p. 5 modifica]dettagli, ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione distrarrò io l’attenzione del lettore tra un numero infinito d’inezie e lo distoglierò da quello ch’io reputo vero scopo di ogni istoria, dalla osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un momento solo, ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il nome di «storia»; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di scriverne. Ma è forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una storia?

Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome essa nasceva da un equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con quell’avvertimento che, nella prima edizione, leggesi al principio del secondo volume, e che ora inserisco qui:

Tutte le volte che in quest’opera si parla di «nome», di «opinione», di «grado», s’intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.

Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che, quando nel primo tomo, pagina 34, io parlo di coloro che furono perseguitati dall’inquisizione di Stato, e li chiamo «giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna», abbia voluto dichiararli persone di niun merito, quasi della feccia del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.

Questo era contrario a tutto il resto dell’opera, in cui mille volte si ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna; che niuna nazione conta tanti che bramassero una riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú de’ repubblicani... Nell’istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano sparsi in Napoli piú che altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli, sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.

I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l’eccesso istesso de’ lumi, che superava l’esperienza dell’etá, faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una [p. 6 modifica]rivoluzione; e questo appunto è quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata contro di loro.

Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello che allora disse in difesa de’ repubblicani il rispettabile presidente del Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall’ignorare le persone o dal volerle offendere.

Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto, che essi non l’aveano. La ricchezza è relativa all’oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano.

Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a produrre una rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.

Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna, Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali a produr la rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era necessario, ed a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de’ lazzaroni del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma intanto Paggio, e non Pagano, era l’uomo del popolo, il quale bestemmia sempre tutto ciò che ignora.

Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i miei; ma è necessario ricordare che, in un’opera destinata alla veritá ed all’istruzione, è necessario riferire tanto i giudizi miei quanto quelli del popolo. Ciascuno sará al suo luogo: è necessario saperli distinguere e riconoscere; e perciò è necessario aver la pazienza di leggere l’opera intera, e non giudicarne da tratti separati.


Questo Saggio è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il quale, senza che ne conoscesse l’autore, [p. 7 modifica]credette il libro degno degli studi suoi: piú grato gli sono, perché lo ha tradotto in modo da farlo apparir degno dell’approvazione de’ letterati di Germania; de’ favorevoli giudizi de’ quali io andrei superbo, se non sapessi che si debbono in grandissima parte ai nuovi pregi che al mio libro ha saputo dare l’elegante traduttore. Pure, tra gli elogi che il libro ha ottenuti, non è mancata qualche censura, ed una, tra le altre, scritta collo stile di un cavalier errante che unisce la ragione alla spada, leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato: La Minerva. L’articolo è sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io non conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo istesso valentissimo scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto egualmente a sostener contro di me colla penna e colla spada che il signor barone di Mack sia un eccellente condottiero di armata, ad onta che nel mio libro io avessi tentato di far credere il contrario. In veritá, io dichiaro che valuto pochissimo i talenti militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio Saggio, avea presenti al mio pensiero la campagna di Napoli e la seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da Mack: vedeva nell’una e nell’altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di rovesci; e credei poter ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del generale. Ciò che è effetto di sola fortuna non si ripete con tanta simiglianza due volte. Quando poi pervenne in Milano l’articolo del signor Dietrikstein, era giá aperta l’ultima campagna. L’amico, che mi comunicò l’articolo, avrebbe desiderato che io avessi fatta qualche risposta. Ma, due giorni appresso, il cannone della piazza annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all’amico l’articolo, e vi scrissi a’ piè della pagina: «La risposta è fatta».

Questo mio libro non deve esser considerato come una storia, ma bensí come una raccolta di osservazioni sulla storia. Gli avvenimenti posteriori han dimostrato che io ho osservato con imparzialitá e non senza qualche acume. Gran parte delle cose che io avea previste si sono avverate; l’esperimento delle cose posteriori ha confermati i giudizi che avea pronunziati sulle antecedenti. Mentre quasi tutta l’Europa teneva Mack in conto [p. 8 modifica]di gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato l’onor della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui sofferte nelle sue campagne non eran tanto effetto di fortuna quanto d’ignoranza. Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi era in tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt’i tentativi de’ collegati dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte le vittorie che avessero potuto ottenere; e tutto ciò perché le vittorie consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si perdono inutilmente se son prive di consiglio, né vi è consiglio ove o non vi è scopo o lo scopo è tale che non possa ottenersi.

Desidero che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti de’ quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverá che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l’esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi errori: sempre lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa alternativa di speranze e di timore, e quella sempre temeraria, questo sempre precipitoso; moltissima fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e perciò nessuna cura delle forze proprie; non mai un’operazione ben concertata; nella prima lega, il trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di ogni ragione e di ogni opportunitá; nella seconda, l’invasione dello Stato pontificio fatta prima che l’Austria pensasse a mover le sue armate, le operazioni del picciolo corpo che Damas comandava in Arezzo incominciate quando le forze austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché si pensava di infrangerlo; i russi e gl’inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era stata decisa in Austerlitz; l’inutile macchia di traditore, e l’inopportunitá del tradimento, e l’obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni di uomini divenire, per colpa de’ suoi ministri, quasi il fattore degl’inglesi e cedere il comando delle sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un generale russo. Ricercate le cagioni di tutti questi [p. 9 modifica]avvenimenti, e trovate esser sempre le stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere dall’Inghilterra, ove avea messe in serbo le sue ricchezze; l’ignoranza delle forze della propria nazione, la nessuna cura di migliorare la di lei sorte, di ridestare negli animi degli abitanti l’amor della patria, della milizia e della gloria; lo stato di violenza che naturalmente dovea sorgere da quella specie di lotta, che era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un ministro straniero che volea tenerlo nella miseria e nell’oppressione; la diffidenza che questo stesso ministro avea ispirata nell’animo de’ sovrani contro la sua nazione; tutto insomma quello che io avea predetto, dicendo che la condotta di quel gabinetto avrebbe finalmente perduto un’altra volta, ed irreparabilmente, il Regno.

Avrei potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella degli avvenimenti posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione a’ tempi ne’ quali avrò piú ozio e maggior facilitá di istruirmene io stesso, ritornato che sarò nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto cangiare al libro che avea pubblicato nel 1800. Quando io componeva quel libro, il gran Napoleone era appena ritornato dall’Egitto; quando si stampava, egli avea appena prese le redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima impresa di ricomporre le idee e gli ordini della Francia e dell’Europa. Ma io ho il vanto di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente ha fatte; ed, in tempi ne’ quali tutt’i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giustizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l’uomo grandissimo. Egli ha verificato l’adagio greco per cui si dice che gl’iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritte al mio amico Russo sul progetto di costituzione composto dall’illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come un monumento di storia [p. 10 modifica]e come una dimostrazione che tutti quegli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici. La Francia non ha incominciato ad aver ordine, l’Italia non ha incominciato ad aver vita, se non dopo Napoleone; e, tra li tanti benefíci che egli all’Italia ha fatti, non è l’ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia patria Giuseppe.