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Sentenza Corte Costituzionale n. 103-1973

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Corte Costituzionale

1973 diritto diritto Sentenza della Corte Costituzionale n. 103/1973 Intestazione 31 ottobre 2008 75% diritto

Organo giudicante: Corte Costituzionale
Deposito in Cancelleria: 5 luglio 1973


SENTENZA N. 103

ANNO 1973


REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE


composta dai signori giudici

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO, Presidente
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Prof. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA


nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 596, comma secondo, e comma terzo, nn. 1 e 3, del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 26 gennaio 1971 dal pretore di Lecco nel procedimento penale a carico di Colombo Mariangela, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 106 del 28 aprile 1971;

2) ordinanza emessa il 17 maggio 1972 dal pretore di Grottaglie nel procedimento penale a carico di Protopapa Cosimo, iscritta al n. 231 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 226 del 30 agosto 1972.

Udito nell'udienza pubblica del 16 maggio 1973 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi.

Ritenuto in fatto


1. - Nel procedimento penale a carico di Mariangela Colombo, imputata del reato previsto e punito dall'art. 594, commi primo, terzo e quarto, del codice penale, per avere offeso l'onore di Celio Molgora, attribuendogli un fatto determinato ed in presenza di più persone, il pretore di Lecco, dopo che il difensore del Molgora, costituitosi parte civile, aveva dichiarato a nome del suo cliente "di non ritenere opportuno di concedere all'imputata la facoltà di prova", sollevava d'ufficio con ordinanza del 26 gennaio 1971, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 596, comma terzo, n. 3, del codice penale, in riferimento agli artt. 24 e 5 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, tale questione, la cui risoluzione incide sul giudizio penale, non é manifestamente infondata.

Premesso che la norma denunciata integra gli estremi di una causa di estinzione o addirittura di esclusione della punibilità in relazione ai reati di ingiuria e di diffamazione, si osserva nell'ordinanza che l'operatività di tale causa (estintiva) é rimessa al puro arbitrio della persona offesa; e si ritiene perciò che tale assoluta discrezionalità della parte lesa circa l'ammissione o meno della facoltà di prova può incidere negativamente sul diritto di difesa dell'imputato in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.

Con la stessa ordinanza, poi, considerato che per l'articolo citato, e a seconda che la parte lesa faccia o meno la richiesta ivi indicata, imputati di eguali reati possono essere sottoposti a diverso procedimento, il pretore di Lecco ritiene che ciò dia luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

2. - Eseguite le notifiche e comunicazioni di rito, e trasmessi gli atti a questa Corte, l'ordinanza veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 106 del 28 aprile 1971. Non si costituiva nessuna delle parti. Solo il 26 luglio seguente spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, che, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, espressi dubbi sulla rilevanza, che sarebbe stata "immotivatamente affermata", chiedeva che la questione fosse dichiarata infondata.

3. - Nel procedimento penale a carico di Cosimo Propapa, imputato dei reati previsti e puniti dagli artt. 594, primo e ultimo comma, e 595, commi secondo e terzo, del codice penale, per avere offeso, in presenza di più persone, l'onore di Orazio Motolose, nonché la di costui reputazione, attribuendogli un fatto determinato e servendosi di un altoparlante installato su un'autovettura, il pretore di Grottaglie, con ordinanza del 17 maggio 1972, rimetteva gli atti a questa Corte per decidere se contrasta con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, l'art. 596, commi secondo e terzo, del codice penale.

Premesso che l'imputato aveva chiesto di provare la verità del fatto determinato, oggetto della contestazione dei detti reati e che la difesa di parte civile aveva, a sua volta, contestato l'ammissibilità di tale prova, il giudice a quo osservava che l'art. 596 del codice penale, in materia di exceptio veritatis, col sancire in linea generale l'esclusione della prova liberatoria, e con l'ammetterla, poi, tra l'altro - nella disciplina dei limiti di operatività di tale principio - quando la persona offesa dal reato sia un pubblico ufficiale ed il fatto determinato ad esso attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni, dà luogo, nel caso in cui la parte lesa non rivesta la qualifica di pubblico ufficiale, ad una evidente disparità di trattamento a danno del cittadino imputato del reato (diffamazione) in danno di altro privato cittadino. Da ciò deriverebbe, secondo il pretore, una ingiustificata compressione del diritto di difesa e quindi una situazione di conflittualità con la disposizione dell'art. 3 della Costituzione, per cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione, tra l'altro, di condizioni personali.

Ad avviso del giudice a quo sarebbe in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, anche la norma dell'art. 596, comma secondo, del codice penale nella parte in cui subordina l'ammissibilità della prova liberatoria all'accordo tra la persona offesa e l'offensore. E ciò in quanto con tale norma la pienezza di attuazione del diritto di difesa, definito inviolabile dalla Costituzione, é condizionata al consenso di una delle parti.

Adempiute le formalità di rito (notificazione, comunicazione e pubblicazione dell'ordinanza), nessuno si é costituito dinanzi alla Corte e non ha nemmeno spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

4. - All'udienza del 16 maggio 1973 non era presente nessuna delle parti né l'Avvocatura dello Stato.

Considerato in diritto


1. - Con le ordinanze indicate in epigrafe dei pretori di Lecco e di Grottaglie, la Corte é chiamata ad esaminare le seguenti questioni di legittimità costituzionale, e precisamente ad accertare:

a) se siano in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, l'art. 596, comma secondo, del codice penale, nella parte in cui (in caso di deferimento ad un giuri d'onore del giudizio sulla verità del fatto determinato nella cui attribuzione consiste l'offesa) "subordina l'ammissibilità della prova all'accordo tra la persona offesa e l'offensore", ed il comma terzo, n. 3, dello stesso articolo, nella parte in cui la operatività della "causa estintiva" ivi prevista é rimessa al puro arbitrio (o all'assoluta discrezionalità) della parte offesa dal reato di ingiuria o di diffamazione;

b) e se urtino contro l'art. 5 della Costituzione, il detto art. 596, comma terzo, n. 3, nonché il numero 1 dello stesso comma, nelle parti in cui, rispettivamente, consentono che imputati di uguali reati siano sottoposti a trattamento diverso, a seconda che il querelante domandi o no che il giudizio si estenda all'accertamento della verità del fatto determinato, ovvero a seconda che ricorrano o meno le condizioni che la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni.

Tali essendo le questioni sottoposte all'esame della Corte, ricorrono i presupposti perché i due giudizi siano riuniti. E pertanto la Corte decide in tal senso.

2. - Le norme contenute nell'art. 596, commi secondo e terzo, n. 3, nelle parti indicate, non sono in contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione.

I pretori che hanno sollevato le questioni, ritengono che il diritto di difesa del cittadino (imputato dei reati di ingiuria o di diffamazione), nelle ipotesi previste nelle dette norme, sia, nell'esercizio, condizionato al "consenso" o alla "insindacabile volontà" di altro cittadino (e cioè della persona offesa). Sennonché la prospettata limitazione o compressione di codesto diritto non sussiste.

Non é, anzitutto, fondato il dubbio circa la legittimità costituzionale dell'art. 596, comma secondo, perché la negazione in tal caso dell'exceptio veritatis e quindi della prova della verità del fatto determinato, é diretta conseguenza ed applicazione del principio, dell'esclusione della prova liberatoria, che é posto dal primo comma dello stesso articolo a tutela della sfera di riserbo della persona e che non é oggetto di denuncia di incostituzionalità; e perché con il detto secondo comma dell'art. 596 non può dirsi che il legislatore abbia voluto dar vita ad una deroga a quel principio.

A quest'ultimo riguardo, va considerato che con la norma in esame é previsto il caso che la persona offesa e l'offensore deferiscano d'accordo ad un giurì d'onore "il giudizio sulla verità" del fatto determinato, e che, se tale facoltà viene esercitata, a sensi del secondo comma dell'art. 597 "la querela si considera tacitamente rinunziata o rimessa". Il che significa che nel processo penale, iniziato e proseguito per uno dei reati previsti e puniti dagli artt. 594 e 595, qualora intervenga quell'accordo, il diritto di difesa dell'offensore in quel processo non ha modo di essere concretamente esercitato e quindi non é prospettabile una limitazione di esso.

Si deve per ciò concludere per la non fondatezza della questione sopra indicata.

Non é d'altra parte fondata, per contrasto con l'art. 24, comma secondo, della Costituzione, la questione relativa all'art. 596, comma terzo, n. 3, del codice penale nella parte in cui tale norma subordina il concreto esercizio del diritto di difesa dell'offensore (attraverso la prova liberatoria) alla "insindacabile volontà" o al "puro arbitrio" della parte offesa.

In effetti, prevedendo l'ipotesi che il querelante domandi formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito, ed ammettendo per tale caso la prova liberatoria, il diritto di difesa, sub specie di codesta prova, e considerato non in astratto ed in generale ma con riferimento alla materia dei delitti contro l'onore e dei relativi processi, non solo non può dirsi limitato o condizionato, ma risulta ampliato nella sua pratica portata: ed invero, la prova liberatoria, che di regola é esclusa, in questa ipotesi eccezionale é ammessa.

E non rileva che l'offensore possa offrire e fornire la prova liberatoria solo nel caso che ricorra la detta richiesta da parte del querelante. Non si é in presenza di un diritto alla prova liberatoria spettante all'offensore e limitato dalla mancanza di quella richiesta, sibbene della negazione della detta prova (emergente dal primo comma non impugnato) e del concreto insorgere di quel diritto in dipendenza del comportamento (consistente nella richiesta) della persona offesa.

3. - Non é, del pari, violato il principio di uguaglianza.

Diversamente da quanto ritiene il pretore di Lecco, non lo é sotto il profilo che "imputati di uguali reati possono essere sottoposti a diverso trattamento secondo che la parte lesa faccia o meno la richiesta indicata" nell'art. 596, comma terzo, n. 3.

La differenza di disciplina sussiste, ma non dà luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento.

Considerato che sulla base del principio consacrato nel primo comma dell'art. 596 sono tutti gli imputati di uno dei reati previsti e puniti dagli artt. 594 e 595 a non essere ammessi alla prova liberatoria, e che la contraria eccezione opera solo per quelli nei cui confronti la persona offesa abbia richiesto formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o falsità del fatto ad essa attribuito, deve riconoscersi che tale eccezione é giustificata, perché la tutela dell'onore sostanziale della persona offesa (quando si tratti di un privato cittadino e non ricorra l'ipotesi di cui al n. 2 dello stesso terzo comma dell'art. 596) costituisce in sede penale un plus (con il conseguente allargamento del tema processuale) su cui é ragionevole che abbia modo di incidere con le sue determinazioni proprio ed unicamente la persona offesa. Ed allora, non possono dirsi eguali le due situazioni messe a raffronto, perché la parte offesa, in un caso, ritiene sufficiente la tutela dell'onore formale (apprestata dal primo comma dell'art. 596) e, nell'altro caso, vuole ottenere la tutela del proprio onore sostanziale; le situazioni complessivamente ed unitariamente considerate sono quindi differenti e perciò appare adeguatamente e razionalmente giustificata la denunciata differenza del trattamento giuridico dell'offensore.

E non é neppure in contrasto con l'art. 5 della Costituzione, l'art. 596, comma terzo, n. 1, nella parte in cui esclude la "prova liberatoria della verità del fatto determinato, nel caso in cui la parte lesa non rivesta la qualifica di pubblico ufficiale".

E ciò perché:

- il diritto alla prova liberatoria, come per l'ipotesi di cui al n. 3 spetta in presenza della richiesta ivi prevista, così, nel caso in esame, spetta al singolo imputato "se la persona offesa é un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all'esercizio delle sue funzioni";

- fuori di questi casi (oltre che di quello di cui al n. 2) c'é (come regola) l'esclusione della prova liberatoria;

- l'eccezione (diversamente da quanto ritiene il pretore di Grottaglie) é giustificata, perché esistono al riguardo condizioni obiettive, le quali riflettono l'esigenza di carattere generale a che il pubblicò ufficiale non si trinceri dietro lo scudo della tutela esteriore, ed invece si faccia interamente luce sull'addebito ed i cittadini possano esercitare un controllo sia pure indiretto sull'andamento della pubblica Amministrazione e sul comportamento del relativo personale, e quindi condizioni obiettive che ragionevolmente consigliano la tutela più ampia dell'onore e della reputazione del pubblico ufficiale;

- e perché, correlativamente, le situazioni, oggettivamente considerate, non sono eguali (richiedendosi l'offesa dell'onore o del decoro, o della reputazione di un privato, ovvero di un pubblico ufficiale ed in questo ultimo caso, che il fatto ad esso attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni) e giustamente meritano di essere trattate in modo non eguale.

In conclusione, le norme sull'exceptio non possono dirsi incostituzionali in quanto vulneranti il principio di garanzia dell'eguale dignità dei cittadini davanti alla legge: la tutela dell'onore sostanziale presenta una sua ragione di essere in quanto la si riguardi in sé o in relazione a quella di altri rilevanti interessi concorrenti, tutela quest'ultima che é attuata attraverso la garanzia del rispetto della verità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE


dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 596, commi secondo e terzo, nn. 1 e 3, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione, dai pretori di Lecco e di Grottaglie con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1973.

Francesco PAOLO BONIFACIO – Giuseppe VERZÌ – Giovanni BATTISTA BENEDETTI – Luigi OGGIONI – Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA – Vincenzo MICHELE TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI – Nicola REALE – Paolo ROSSI – Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA. – Edoardo VOLTERRA – Guido ASTUTI

Arduino SALUSTRI - Cancelliere


Depositata in cancelleria il 5 luglio 1973.