Storie fiorentine dal 1378 al 1509/IX

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MORTE DI LORENZO DE’ MEDICI (1492)
SUO RITRATTO. CONFRONTO CON COSIMO


Era in somma pace la città, uniti e stretti e’ cittadini dello stato e quello reggimento in tanta potenzia che nessuno si ardiva contradirlo; dilettavasi el popolo ogni dí di spettaculi, di feste e cose nuove; nutrivasi coll’essere la città abundante di vettovaglie e tutti gli esercizi in fiore ed essere; pascevansi gli uomini ingegnosi e virtuosi collo essere dato ricapito e condizione a tutte le lettere, a tutte le arte, a tutte le virtú; e finalmente la città sendo drento universalmente in somma tranquillità e quiete, di fuori in somma gloria e riputazione per avere un governo ed un capo di grandissima autorità, per avere frescamente ampliato lo imperio, per essere stata in gran parte causa della salute di Ferrara e poi del re Ferrando, per disporre di Innocenzio interamente, per essere collegata con Napoli e con Milano, per esser quasi una bilancia di tutta Italia, nacque uno accidente che rivoltò ogni cosa in contrario, con scompiglio non solo della città, ma di tutta Italia. E questo è che nel detto anno 1491 avendo Lorenzo de’ Medici avuto un male lungo e giudicato nel principio da’ medici di non molta importanza, né forse curato con la diligenzia si conveniva, e però occultamente avendo sempre preso forze, finalmente a dí... di aprile 1492 passò della presente vita.

Fu denotata questa morte come di momento grandissimo da molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa; erasi uditi urlare lupi; una donna in Santa Maria Novella infuriata aveva gridato che uno bue colle corna di fuoco ardeva tutta la città, eransi azzuffati insieme alcuni lioni ed uno bellissimo era stato morto dagli altri, ed ultimamente un dí o dua innanzi alla morte sua, di notte una saetta aveva dato nella lanterna della cupola di Santa Liperata e fattone cadere alcune pietre grandissime, le quali caddono verso la casa de’ Medici, ed alcuni etiam riputorono portento che maestro Piero Lione da Spuleto, per fama primo medico di Italia, avendolo curato, si gittò come disperato in un pozzo e vi annegò, benché alcuni dissono vi era stato gittato drento.

Era Lorenzo de’ Medici di età di anni quarantatré quando morí, ed era stato al governo della città ventitré anni, perché quando morí Piero suo padre nel 69, era di anni venti; e benché rimanessi tanto giovane e quasi in cura di messer Tommaso Soderini ed altri vecchi dello stato, nondimeno in brieve tempo prese tanto piede e tanta riputazione, che governava a suo modo la città. La quale autorità ogni dí multiplicandogli e di poi diventata grandissima pella novità del 78 e di poi per la ritornata da Napoli, visse insino alla morte governandosi e disponendosi la città tanto interamente a arbitrio suo, quanto se ne fussi stato signore a bacchetta. E perché la grandezza di questo uomo fu grandissima, che mai Firenze ebbe un cittadino pari a lui, e la fama sua molto amplissima e doppo la morte e mentre visse, non mi parrà fuori di proposito, anzi utilissimo descrivere particularmente e’ modi e qualità sua, per quanto n’abbi ritratto non da esperienzia, perché quando morí io ero piccolo fanciollo, ma da persone e luoghi autentichi e degni di fede, e di natura che, se io non mi inganno, ciò che io ne scriverrò sarà la pura verità.

Furono in Lorenzo molte e preclarissime virtú; furono ancora in lui alcuni vizi, parte naturali, parte necessari. Fu in lui tanta autorità, che si può dire la città non fussi a suo tempo libera, benché abondantissima di tutte quelle glorie e felicità che possono essere in una città, libera in nome, in fatto ed in verità tiranneggiata da uno suo cittadino; le cose fatte da lui, benché in qualche parte si possino biasimare, furono nondimeno grandissime, e tanto grande che recano piú ammirazione assai a considerarle che a udirle, perché mancano, non per difetto suo ma della età e consuetudine de’ tempi, di quegli strepiti di arme e di quella arte e disciplina militare che recono tanta fama negli antichi. Non si leggerà in lui una difesa bella di una città, non una espugnazione notabile di uno luogo forte, non uno stratagema in uno conflitto ed una vittoria degli inimici; e però non risplendono le cose sue di quegli fulgori delle arme; ma bene si troverrà in lui tutti quegli segni ed indizi di virtú, che si possono considerare ed apparire in una vita civile. Nessuno eziandio degli avversari e di quegli che l’hanno obtrettato, negano che in lui non fussi uno ingegno grandissimo e singulare; e ne fa tanto fede l’avere ventitré anni governata la città e sempre con augumento della potenzia e gloria sua, che sarebbe pazzo chi lo negassi, massime sendo questa una città liberissima nel parlare, piena di ingegni sottilissimi ed inquietissimi, ed uno imperio piccolo da non potere cogli utili pascere tutti e’ cittadini, ma sendo necessario che, contentatane una piccola parte, gli altri ne fussino esclusi. Fanne fede la amicizia ed el credito grande che ebbe con molti principi in Italia e fuori di Italia; con Innocenzio, col re Ferrando, col duca Galeazzo, col re Luigi di Francia, infino al Gran turco, al Soldano, dal quale negli ultimi anni della sua vita fu presentato di una giraffa, di uno lione e di castroni; che non nasceva da altro che da sapere lui con gran destrezza ed ingegno trattenersi questi principi. Fanne fede, apresso a chi lo udí, e’ parlari sue publichi e privati, tutti pieni di acume ed arguzia grande, co’ quali in molti luoghi e tempi, e massime nella dieta di Cremona, si fece acquisto grandissimo. Fanne fede le lettere dettate da lui, piene di tanto ingegno che piú non si può desiderarne; le quale cose tanto parvono piú belle, quanto furono accompagnate da una eloquenzia grande e da uno dire elegantissimo.

Ebbe buono giudicio e di uomo savio, e nondimeno non di qualità da potersi paragonare collo ingegno; e furono notate in lui piú cose temerarie: la guerra di Volterra, che per volere sgarare e’ volterrani in quegli allumi, gli constrinse a ribellarsi ed accese un fuoco da mettere sottosopra tutta Italia, benché el fine fussi buono; doppo la novità del 78, se si portava dolcemente col papa e col re, non arebbono forse rottogli guerra, ma el volere procedere come ingiuriato e non volere dissimulare la ingiuria ricevuta, potettono essere cagione della guerra con grandissimo danno e pericolo della città e suo; l’andata a Napoli fu tenuta deliberazione troppo animosa e troppo corsa, sendosi messo nelle mani di uno re inquietissimo infedelissimo ed inimicissimo suo, e se bene la necessità della pace, in che era la città e lui, lo scusi, nondimeno fu opinione l’arebbe potuta fare standosi in Firenze, con piú sua sicurtà e non con meno vantaggio.

Appetí la gloria e la eccellenzia piú che alcuno altro, in che si può riprendere avere avuto troppo questo appetito nelle cose eziandio minime, pel quale non voleva eziandio ne’ versi, ne’ giuochi, negli esercizi essere pareggiato o imitato da alcuno cittadino, sdegnandosi contro a chi facessi altrimenti; fu troppo eziandio nelle grande, conciosiaché volessi pareggiarsi e gareggiare in ogni cosa con tutti e’ principi di Italia, il che dispiacque assai al signore Lodovico. Nondimeno in universum tale appetito fu laudabile e fu cagione fare celebrare in ogni luogo, eziandio fuori di Italia, la gloria ed el nome suo, perché si ingegnò che a’ tempi sua fussino tutte le arte e le virtú piú eccellente in Firenze che in altra città di Italia. Principalmente alle lettere ordinò di nuovo a Pisa uno Studio di ragione e di arte, e sendogli mostro per molte ragione che non vi poteva concorrere numero di studianti come a Padova e Pavia, disse gli bastava che el collegio de’ Lettori avanzassi gli altri. E però sempre vi lesse a’ tempi sua, con salari grandissimi, tutti e’ piú eccellenti e piú famosi uomini di Italia non perdonandosi né a spesa né a fatica per avergli, cosí fiorirono in Firenze gli studi di umanità sotto messer Agnolo Poliziano, e’ greci sotto messer Demetrio e poi el Lascari, gli studi di filosofia e di arte sotto Marsilio Ficino, maestro Giorgio Benigno, el conte della Mirandola ed altri uomini eccellenti. Détte el medesimo favore a’ versi vulgari, alla musica, alla architettura, alla pittura, alla scultura, a tutte le arte di ingegno e di industria, in modo che la città era copiosissima di tutte queste gentilezze; le quali tanto piú emergevano quanto lui, sendo universalissimo, ne dava iudicio e distingueva gli uomini, in forma che tutti per piú piacergli facevano a gara l’uno dell’altro. Aiutavalo la sua liberalità infinita, colla quale abondava a’ valenti uomini le provisione e gli soppeditava tutti gli instrumenti necessari alle arte loro come quando per fare una libreria greca mandò el Lascari, uomo dottissimo e che leggeva greco in Firenze, e cercare insino in Grecia libri antiqui e buoni.

Questa medesima liberalità gli conservava el nome e le amicizie co’ principi e fuora di Italia, non pretermettendo lui alcuna spezie di magnificenzia, con sua gandissima spesa e danno, colla quale potessi trattenersi gli uomini grandi; in forma che moltiplicando a Lione, a Milano, a Bruggia e ne’ luoghi dove erano e’ traffichi e ragione sua, le spese per le magnificenzie e donativi, e diminuendosigli e’ guadagni per non essere governate da uomini sufficienti, come Lionetto de’ Rossi, Tommaso Portinari e simili, ed inoltre non gli sendo renduti e’ conti bene, perché lui non si intendeva della mercatura e non vi badava, si condusse piú volte in tanto disordine, che fu per fallire e gli fu necessario aiutarsi e co’ danari degli amici e co’ danari publici. E però nel 78 accattò da’ figliuoli di Pierfrancesco de’ Medici ducati sessantamila, e’ quali non potendo loro rendere, gli pagò di quivi a qualche anno assegnando loro Cafaggiuolo colle possessione aveva in Mugello; ordinò che in quella guerra e’ soldati si pagassino al banco de’ Bartolini, dove lui participava; e per suo ordine era ritenuta ne’ pagamenti tanta quantità che portava circa a otto per cento, che tornava danno al comune; perché e’ condottieri tenevano tanto manco gente che si salvavano, ed el commune bisognava facessi tante piú condotte. Cosí di poi in altro tempo si valse del publico per soccorrere a’ bisogni e necessità sua, che furono piú volte sí grandi, che nello 84 per non fallire, fu constretto accattare dal signore Lodovico ducati quattromila e vendere un a casa aveva in Milano per altri quattromila, che era stata donata dal duca Francesco a Cosimo suo avolo; che è da credere rispetto alla sua natura tanto liberale e magnifica, lo facessi colle lagrime in su gli occhi. Di che vedutosi abandonato dagli aviamenti de’ trafichi, si volse a fare una entrata di possessione di quindicimila o ventimila ducati; e si distese in modo oltra alle antiche sue in quello di Pisa che doveva essere a diecimila.

Fu di natura molto superbo, ed in modo che, oltre al non volere che gli uomini si gli opponessino, voleva ancora intendessino per discrezione, usando nelle cose importante poche parole e dubie; nello ordinario del conversare molto faceto e piacevole; nel vivere in casa piú tosto civile che suntuoso, eccetto che ne’ conviti co’ quali onorava molto magnificamente assai forestieri nobili che venivano a Firenze, fu libidinoso e tutto venereo e constante negli amori sua, che duravano parecchi anni; la quale cosa, a giudicio di molti, gli indebolí tanto el corpo che lo fece morire, si può dire, giovane. L’ultimo amore suo, e che durò molti anni, fu in Bartolomea de’ Nasi, moglie di Donato Benci nella quale, benché non fussi formosa, ma maniera e gentile era in modo impaniato, che una vernata che lei stette in villa, partiva di Firenze a cinque o sei ore di notte in sulle poste con piú compagni e la andava a trovare, partendosene nondimeno a tale ora, che la mattina innanzi dí fusse in Firenze. Della quale cosa dolendosi molto Luigi dalla Stufa ed el Butta de’ Medici che vi andavono in sua compagnia, lei accortasene gli messe tanto in disgrazia di Lorenzo, che per contentarla mandò Luigi imbasciadore al Soldano, ed el Butta al Gran turco. Cosa pazza a considerare che uno di tanta grandezza riputazione e prudenzia, di età di anni quaranta, fussi sí preso di una donna non bella e già piena di anni, che si conducessi a fare cose che sarebbono state disoneste a ogni fanciullo. Fu tenuto da qualcuno di natura crudele e vendicativo per la durezza usò nel caso de’ Pazzi, imprigionando e’ giovani innocenti e non volendo si maritassino le fanciulle, doppo tante uccisione si erano fatte in quegli giorni. Nondimeno quello accidente fu tanto acerbo, che non fu maraviglia si risentissi estraordinariamente, e si vede pure poi che mitigato dal tempo, dette licenzia che le fanciulle si maritassino e fu contento che e’ Pazzi uscissino di prigione e andassino a stare fuori del territorio; vedesi ancora negli altri suoi processi non avere usato crudeltà, né essere stato uomo sanguinoso. Ma quello che fu in lui piú grave e molesto che altra cosa, fu el sospetto, causato forse non tanto da natura, quanto dal cognoscersi avere a tenere sotto una città libera, e nella quale era necessario che le cose s’avevano a fare, si facessino da’ magistrati e secondo gli ordini della città e sotto spezie e forma di libertà; e però ne’ principi suoi, come prima cominciò a pigliare piede, attese a tenere sotto quanto poteva tutti quegli cittadini, e’ quali cognosceva o per nobilità o per ricchezza o per potenzia o per riputazione dovere essere stimati per lo ordinario. E benché a questi tali, se erano di casa e stirpe confidente allo stato, fussino concessi largamente e’ magistrati della città, le imbascierie commessene e simili onori, nondimeno non si fidando di loro, faceva signori degli squittini, delle gravezze, e conferiva gli intrinsechi segreti sua a uomini, a chi e’ dava riputazione, che fussino di qualità che sanza lo appoggio suo non avessino seguito. Di questi fu un messer Bernardo Buongirolami, Antonio di Puccio, Giovanni Lanfredini, Girolamo Morelli (benché questo diventò poi sí grande che nel 79 gli fece paura), messer Agnolo Niccolini, Bernardo del Nero, messer Pietro Alamanni, Pierfilippo Pandolfini, Giovanni Bonsi, Cosimo Bartoli ed altri simili, benché in tempi diversi, urtando qualche volta messer Tommaso Soderini, messer Luigi ed Iacopo Guicciardini, messer Antonio Ridolfi, messer Bongianni Gianfigliazzi, messer Giovanni Canigiani, e poi Francesco Valori, Bernardo Rucellai, Piero Vettori, Girolamo degli Albizzi, Piero Capponi, Pagolantonio Soderini ed altri simili. Dì qui nacque el tirare su Antonio di Bernardo, el quale, sendo artefice, fu proposto alla cura del Monte con tanta autorità che si può dire governassi e’ due terzi della città ser Giovanni notaio alle riformagione, el quale, figliuolo di uno notaio da Pratovecchio, ebbe tanto favore, che avendo avuto tutti gli altri magistrati e sendo molto compiaciuto da lui, sarebbe stato gonfaloniere di giustizia; messer Bartolomeo Scala, quale, figliuolo di uno mugnaio da Colle, sendo cancelliere maggiore della signoria, fu fatto gonfaloniere di giustizia con grandissimo scoppio e sdegno di tutti gli uomini da bene, ed insomma, benché gli uomini della qualità di quegli di sopra intervenissino alle cose, nondimeno nel consiglio del Cento, negli squittini, nelle gravezze, vi mescolava tanti uomini mezzani, de’ quali aveva fatto intelligenzie, che loro erano signori del giuoco.

Questo medesimo sospetto gli fece tenere cura che molti uomini potenti da per loro non si imparentassino insieme, e si ingegnava apaiargli in modo non gli dessino ombra, strignendo qualche volta, per fuggire queste coniunzioni, de’ giovani di qualità a tôrre per donna alcune che non arebbono tolte, ed insomma era la cosa ridotta in modo che non si faceva parentado alcuno piú che mediocre sanza participazione e licenzia sua. Questo medesimo sospetto fu causa, acciò che gli imbasciadori che andavano fuora non uscissino della voglia sua, di ordinare che a Roma, a Napoli, a Milano stessi fermo un cancelliere salariato dal publico, che stessi a’ servigi dello imbasciadore vi risedeva, co’ quali lui teneva conto da parte ed era avisato delle cose occorrente. Non voglio mettere fra’ sospetti el menarsi drieto un numero grande di staffieri colle arme, e’ quali lui favoriva assai dando a alcuni spedali e luoghi pii, perché la novità de’ Pazzi ne fu cagione; nondimeno non era spezie di una città libera e di uno cittadino privato, ma di uno tiranno e di una città che servissi. Ed insomma bisogna conchiudere che sotto lui la città non fussi in libertà, nondimeno che sarebbe impossibile avessi avuto un tiranno migliore e piú piacevole; dal quale uscirono per inclinazione e bontà naturale infiniti beni, per necessità della tirannide alcuni mali ma moderati e limitati tanto quanto la necessità sforzava, pochissimi inconvenienti per volontà ed arbitrio libero, e benché quegli che erano tenuti sotto si rallegrassino della sua morte, nondimeno agli uomini dello stato ed ancora a quegli che qualche volta erano urtati, dispiacque assai, non sapendo dove per la mutazione delle cose avessino a capitare. Dolse ancora molto allo universale della città ed al popolo minuto el quale del continuo era tenuto da lui in abondanzia, in piaceri, dilettazioni e feste assai; dette grandissimo affanno a tutti gli uomini di Italia che avevano eccellenzia in lettere in pittura, scultura o in simili arte, perché o erano condotti da lui con grandi emolumenti, o erano tenuti in piú riputazione dagli altri principi, e’ quali dubitavano, non gli vezzeggiando, non se ne andassino da Lorenzo.

Lasciò tre figliuoli maschi: Piero, el primo, di età d’anni circa ventuno; messer Giovanni cardinale, el secondo, el quale poche settimane innanzi alla sua morte aveva ricevuto el cappe]lo ed era stabilito nella dignità del cardinalato, Giuliano, el terzo, ancora fanciullo. Fu di statura mediocre, el viso brutto e di colore nero, pure con aria grave; la pronunzia e boce roca e poco grata perché pareva parlassi col naso.

Sono molti che ricercano chi fussi piú eccellente o Cosimo o lui; perché Piero, benché di pietà e clemenzia avanzassi l’uno e l’altro, fu sanza dubio inferiore di loro nelle altre virtú. Nella quale quistione pare da conchiudere che Cosimo avessi piú saldezza e piú giudicio, perché lui fece lo stato, e da poi che l’ebbe fatto, se lo godé trent’anni sicuramente, si può dire, e sanza contradizione, comportando bene uno pari di Neri, e gli altri di chi aveva qualche sospetto, sanza venire a rottura con loro e nondimeno in modo ne fussi sicuro. Ed in tante occupazioni dello stato non lasciò le cura della mercatantia e delle cose sue private, anzi le governò con tanta diligenzia e con tanto cervello, che si trovò sempre le ricchezze maggiore dello stato, el quale era grandissimo, e non fu constretto per bisogno avere a maneggiare l’entrate publiche, né a usurpare quello de’ privati. In Lorenzo non fu tanto giudicio, benché avessi una briga sola di conservare lo stato, perché lo trovò fatto; nondimeno lo conservò con molti pericoli, come fu la novità de’ Pazzi e la gita di Napoli; nelle mercatantie e cose private non ebbe intelligenzia, in modo che andandogli male, fu forzato valersi del publico e forse in qualche cosa del privato, con grandissima infamia e carico suo, ma abondorono in lui eloquenzia destrezza ingegno universale in delettarsi di tutte le cose virtuose e favorirle; in che Cosìmo al tutto mancò, el quale si dice, massime da giovane, essere stato nel parlare piú tosto inetto che altrimenti.

La magnificenzia dell’uno e dell’altro fu grandissima, ma in spezie diverse: Cosimo in edificare palazzi, chiese nella patria e fuori della patria, e cose che avessino a essere perpetue ed a mostrare sempre presente fama di lui, Lorenzo cominciò al Poggio a Caiano una muraglia suntuosissima e non la finí prevenuto dalla morte; e con tutto fussi in sé cosa grande, nondimeno rispetto alle tante e tali muraglie di Cosimo, si può dire murassi nulla; ma fu grandissimo donatore e co’ doni e liberalità sua si fece grandissime amicizie di principi e di uomini erano apresso a loro. Per le quali cose si può in effetto a mio giudicio conchiudere che, pesato insieme ogni cosa, Cosimo fussi piú valente uomo, e nondimeno per la virtú e per la fortuna l’uno e l’altro fu sí grandissimo, che forse dalla declinazione di Roma in qua non ha avuto Italia uno cittadino privato simile a loro.

Intesasi in Firenze la morte di Lorenzo, perché morí a Careggi al luogo suo, vi concorse subito moltissimi cittadini a visitare Piero suo figliuolo, al quale, per essere el maggiore, si aparteneva per successione lo stato; e di poi si feciono in Firenze le esequie sanza pompa e suntuosità, ma con concorso di tutti e’ cittadini della città, tutti con qualche segno di bruno, e con dimostrazione di essere morto uno publico padre e padrone della città; la quale sí come in vita sua, raccolto insieme ogni cosa, era state felice, cosí doppo la morte sua cadde in tante calamità ed infortuni, che multiplicorono infinitamente el desiderio di lui e la riputazione sua.