Storie fiorentine dal 1378 al 1509/XIII

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XIII

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XII XIV


«LA IMPRESA DI NAPOLI»
LEGA ITALICA CONTRO CARLO VIII
CONDIZIONI DELLO STATO FIORENTINO (1495)


1495. E cosí sendo in preda lo stato nostro, venne a Firenze el cardinale di San Malò, primo uomo che avessi el re di Francia, ed avuti quarantamila ducati andò a Pisa, data intenzione di rendercela, almeno el corpo della terra; e statovi pochi dí sanza fare conclusione in beneficio nostro, se ne tornò al re Carlo. El quale vittoriosamente aveva finito con mirabile celerità la impresa di Napoli; perché partitosi da Firenze ed entrato in quello di Roma, papa Alessandro non si potendo difendere, si era accordato seco con condizione di dargli per sua sicurtà alcune terre e per statico un suo figliuolo, e datogli el fratello del Gran turco che era preso a Roma (el quale poco poi morí, e fu opinione avessi avuto dal papa veleno a tempo) entrò in Roma per la settimana santa; ed avendo fatto creare cardinale el vescovo di San Malò, si dirizzò alla volta del reame. Le quali cose sendo intese dal re Alfonso, disperato potersi difendere, lasciato lo stato in mano di Ferrando duca di Calavria suo primogenito, e fattolo creare re lui non piú re chiamato, ma don Alonso, se ne andò in Sicilia in uno convento di frati, dove in termine di non molti mesi morí. Ma poco piú soprastette a fuggirsi el re nuovo Ferrando, perché non avendo el re Carlo ostaculo alcuno alla campagna, ed acquistando ogni dí per universale rebellione de’ popoli, tanto terreno quanto e’ cavalcava in pochissimi giorni si insignorí di tutto el regno di Napoli, cosa troppo stupenda a considerarla. El re se ne fuggí alla volta di Spagna, el signore Virginio Orsino ed el conte Niccola di Pitigliano di casa Orsina furono presi in Nola; rimasono solo le fortezze di Napoli in mano de’ Ragonesi, le quali presto si dettono.

A Firenze si sonò a gloria, e facesi dimostrazione grande di allegrezza per questa nuova, benché in fatto dispiacessi insino al cuore pure la dependenzia avamo da lui, e lo essere le fortezze nostre in sua mani, necessitavano a fare cosí. Furongli mandati imbasciadori messer Guidantonio Vespucci, Lorenzo Morelli, Bernardo Rucellai e Lorenzo di Pierfrancesco, sí per congratularsi seco di tanta vittoria, sí per chiedergli le cose nostre, come era obligato restituirci, finita la guerra di Napoli, massime sendosi dal canto nostro sborsata quella somma di danari in che eravamo convenuti. Questa vittoria di Napoli, tanto presta e piú che non era la opinione, sbigottí forte ognuno, parendo che avendo aggiunto allo stato di Francia uno tanto regno, e trovandosi uno esercito vittoriosissimo e colle arme in mano, tutta Italia restassi a sua discrezione. La quale cosa non solo dispiaceva a’ potentati italiani, ma eziandio a Massimiano re de’ romani ed a Ferrando re di Spagna, a’ quali, per la vicinità e le antiche controversie, ogni augumento di Francia era non meno sospetto che molesto; e però per sicurtà degli stati communi si contrasse una lega generale a difesa degli stati e contro a Francia tra papa, imperadore, re di Spagna, viniziani e duca di Milano; e fattone capitano Francesco da Gonzaga marchese di Mantova che era soldato de’ viniziani, si dava in Lombardia pel duca ed e’ viniziani forte danari, e da ogni banda si ragunava gente per opporsi al re Carlo, dal quale in sulla conclusione della lega si era nascostamente fuggito el figliuolo del papa. Non vollono e’ fiorentini, benché richiestine, concorrervi né discostarsi dal re, per aspettare la restituzione delle fortezze, secondo aveva promesso.

Attendevasi in quello tempo nella città a fondare tuttavia e fortificare lo stato del popolo; la qual cosa non sendo grata a’ venti ed a molti cittadini di autorità, e dubitandosi che loro, veduto appressarsi al fine dello uficio ed avere a rimanere pari agli altri cittadini, non facessino una signoria a loro modo, ed alterassino questo governo populare, cominciò fra Girolamo a predicare destramente contro a loro, mostrando che sarebbe bene si finissi questo uficio. El nome e lo uficio loro era in sí odiato dal popolo, sí per sospetto che non alterassino el consiglio, sí per e’ modi e portamenti loro, e’ quali erano stati brutti e sciocchi, e sanza unione alcuna. Avevano, la prima volta feciono la signoria, creato gonfaloniere di giustizia Filippo Corbizzi, el quale era uomo di pochissima qualità e di autorità e di virtú, ma era stato molto favorito da Tanai de’ Nerli, alla quale creazione si era opposto assai Francesco Valori, dando favore a Pagolo Falconieri, uomo piú spicciolato ancora che Filippo (il che in quel tempo per piacere al popolo si cercava) e di piú cervello e migliore qualità che lui, ed essendo nati dispareri e non si potendo accordare, fu forza pigliassino quello aveva piú fave, benché non vincessi el partito. Ferono di poi gonfaloniere Tanai de’ Nerli, uomo nobile, ricchissimo e potente pel numero de’ figliuoli, e massime per essersi tanto Iacopo adoperato nella cacciata di Piero, ma che nelle cose dello stato valeva poco, il che dispiacque assai a ognuno, parendo cosa brutta che uno accopiatore creassi se medesimo, e massime che sendo stato un’altra volta gonfaloniere a tempo di Lorenzo pareva fussi stato mosso solo dalla ambizione. Doppo lui feciono Bardo Corsi ancora del numero de’ venti, la creazione di chi in sé non dispiaceva, perché era vecchio e stato tenuto indrieto ed ammunito dalla casa de’ Medici. Ma sendo in tutte queste elezione di varie voluntà, si erano in modo disuniti che non vi era né fede né concordia fra loro; e benché molte volte tentassino di riunirsi, pure ogni cosa era vana, ed essendosi sparta questa divisione, n’avevano carico apresso a ognuno, e inoltre la potenzia loro era piú debole, in modo che aggiugnendovisi la autorità ed el credito di fra Girolamo, si cominciò pel popolo a sparlarne e minacciargli, e loro a trovarsi in travagli grandissimi, e’ quali umori riscaldando, Giuliano Salviati, o impaurito o persuaso da fra Ieronimo, spontaneamente rifiutò lo uficio. Di che nacque che e’ compagni vedendosi, oltre alla disunione in tanto grido, e non parendo essere loro sanza carico delle persone, messono in consiglio una provisione di rifiutare tutti, la quale si vinse con grandissimo favore, e loro subito rinunziorono del mese di maggio 1495, e la autorità di fare la signoria si transferí al popolo, el quale creò primo gonfaloniere di giustizia Lorenzo Lenzi.

El re Carlo in questo tempo udita la lega fatta, deliberò tornarsi in Francia, e lasciato a guardia del reame una parte delle gente d’arme franzese sotto alcuni de’ suoi capitani, e qualche italiano sotto Camillo Vitelli, ne venne col resto alla volta di Toscana. E perché gli aveva sempre agli oratori nostri negata la restituzione delle cose nostre, ed inoltre loro avevono ritratto, lui essere malissimo disposto contro a tutti gli italiani, ed in spezie che alcuni de’ primi suoi avevono molto in odio la città nostra, entrò tanto sospetto universalmente ne’ nostri cittadini, che tutti ammoniti dal pericolo passato, si provederono di arme, empierono le casa di fanti del contado, fortificando ancora la città con tutti quegli instrumenti che fussino atti a difendere, acciò che se e’ volessi come l’altra volta alloggiare in Firenze, si gli potessi concedere la entrata securamente. Le quali cose sendogli venute a notizia, parte per non s’avere a cimentare quivi, parte perché male poteva soprastare; intendendosi che e’ viniziani ed el duca di Milano avevano, per opporsigli, congregato uno grossissimo esercito in Parmigiana, partitosi da Siena, deliberò sanza toccare la città andarsene a Pisa, ed avendo a Poggibonizi trovato fra Girolamo e parlato con lui, mostrandogli reverenzia, sanza frutto però nelle cose nostre di Pisa, se ne andò a Pisa per andarsene alla volta di Lombardia; ed essendo quivi, o circa a quello tempo, ebbe nuove come Lodovico duca di Orliens aveva per trattato preso Novara, terra del duca di Milano. Di poi partitosi da Pisa, lasciando pure guardate per sé le nostre fortezze, ne andò per Lunigiana, e saccheggiato Pontriemoli, terra dello stato di Milano, ne venne in Parmigiano, dove trovò essere alloggiati in sul Taro gli eserciti de’ viniziani e del duca, tanto superiori a lui di numero, che solo quegli de’ viniziani lo avanzavano di gran lunga.

Sendo giunto quivi, con intenzione, se non era impedito andarsene alla volta di Francia, fu disputa nel campo italiano quello fussi da fare. Pareva al signore Ridolfo da Gonzaga, zio del marchese, ed a alcuni altri condottieri de’ piú vecchi, non si dovessi apiccare zuffa con loro, anzi andargli costeggiando mentre che erano in sullo stato di Milano; e cosí sarebbono al sicuro che e’ non dannificherebbono quello stato, ed anche potrebbe essere che la carestia delle vettovaglie gli strignerebbe in modo che e’ sarebbono forzati o fare fatto d’arme con grandissimo disavantaggio, o veramente pigliare quelle condizioni che fussino loro date dalla lega. Al marchese desideroso di combattere parve altrimenti, e credo ancora messer Marchionne Trivisano proveditore viniziano fussi del medesimo parere; e finalmente apiccata la battaglia, si fece un fierissimo fatto di arme, el quale durò molte ore, benché e’ franzesi fussino assai minore numero, ma si aiutarono assai colle artiglierie. Lo effetto fu che la sera si divise la zuffa ed ognuno si tornò a’ sua alloggiamenti, in modo che non sendo fuggito nessuno, non si può dire alcuna parte fussi rotta. Ma el danno de’ franzesi non fu molto grande; quello degli italiani fu grandissimo, perché fu morti della parte loro quattro o cinquemila persone, e molti uomini di capo, fra’ quali el signore Ridolfo da Gonzaga; e tutto questo danno fu da’ marcheschi perché e’ ducheschi, che erano sotto el conte di Gaiazzo, per ordine del duca non si mescolorono quasi punto nel fatto di arme. La cagione fu, perché el duca vedendo e’ viniziani avere piú gente di lui assai ed essere in su’ terreni sua, dubitò se el re di Francia era rotto, di non rimanere a discrezione de’ viniziani naturalmente inimici suoi, e che per ambizione non tengono conto di lega o di fede. Apresso può essere che e’ considerassi che mettendo e’ sua a pericolo della fortuna, se e’ fussino rotti che lui portava piú pericolo che e’ viniziani, per essere e’ franzesi in sul suo, e che e’ sarebbe stato el primo a perdere lo stato. Cosí può essere che e’ pensassi, quando el re fussi rotto, che questa sarebbe ingiuria di qualità da non ne fare mai pace con Francia; la quale cosa aveva da stimare piú lui che altri, per essere loro vicino, e che riputerebbono piú l’offesa da lui, per essere stato egli el primo che gli avessi chiamati in Italia, e di poi, fattosi duca di Milano, avessi vòlto loro le punte. Queste cagione lo potettono muovere a avere piú caro che, per ogni affetto che potessi nascere, e le genti sua e quelle del re rimanessino salve.

Fatto el fatto di arme, e’ franzesi non avendo piú chi si gli opponessi, sanza contradizione alcuna se ne vennono in Asti, dove sendo giunti, feciono triegua per poco tempo colla lega, cosa grata all’una parte e l’altra; ed el duca di Milano con parte delle genti viniziane e con le sue accampato a Noara, la recuperò piú tosto per fame che per forza. Nel quale tempo poco prima che fu circa a quegli giorni che el re giunse in Asti, sendo molto male contenti e’ popoli del reame della signoria de’ franzesi preso animo per la partita del re e per la nuova lega, e’ napoletani e molti altri popoli si ribellarono, ed el re Ferrando, chiamato Ferrandino, ritornò in Napoli. E perché nel reame era gente grossa pel re di Francia e molte città si tenevano a sua divozione volendo ricuperare el regno interamente e non avendo danari, accattò da’ viniziani, per mezzo del re di Spagna e del duca di Milano, certa somma di danari, dando per loro sicurtà nelle loro mani Otranto, Brandizio ed altri porti del reame; ed e’ viniziani all’incontro promessono a lui ed al re di Spagna rendere detti porti, ogni volta che fussino rimborsati de’ danari loro; e fatta questa convenzione, el marchese di Mantova, come soldato de’ viniziani, passò nel reame contro a’ franzesi. Dove, doppo non molti mesi, lo effetto fu che e’ franzesi sendo rotti, ed affamati di poi in Atella, ed essendo stato morto Camillo Vitelli e loro ridotti a piccolo numero, né avendo altra speranza di soccorso dal re Carlo che bruttamente gli lasciò perire, bisognò che uscissino del reame; e quegli pochi che rimasono, fatto accordo col re Ferrando e restituitogli tutto lo stato suo, ne ritornorono per acqua in Francia.

In questo tempo ancora, cioè quando el re tornò in Asti, sendovi oratore messer Guidantonio Vespucci e Neri Capponi, e forse ancora el Soderino vescovo di Volterra, si fece convenzioni nuove col re, dandogli certa somma di danari, e lui con grande efficacia promisse la restituzione delle cose nostre; la quale cosa pareva verisimile, per lo essere lui fuori di Italia e non avere piú a servirsene, e per avergli noi interamente osservato la fede e rimasti in Italia soli amici sua. La quale pratica agitandosi, si mandò el campo nostro a Vicopisano del mese di agosto di detto anno 1495, e statovi molti dí sanza fare profitto alcuno, sendo feriti e guasti assai de’ nostri, el campo con vergogna si levò. Vennono di poi le commessioni di Francia a chi era nelle fortezze nostre che ce le restituissino, ed e’ contrasegni delle ròcche; a’ quali effetti racozzate le gente nostre, e sendovi mandati commessari Francesco Valori e Paolantonio Soderini, un dí improvisamente assaltorono el borgo di San Marco; el quale preso di subito e trovato la porta aperta, erano già cominciate a entrare le gente nostre sanza resistenzia ed e’ pisani impauriti a ritrarsi di là d’Arno, quando el castellano francioso della cittadella nuova cominciò a trarre le artiglierie contro a’ nostri, il che sentendo e’ commessari, non sapendo el successo de’ nostri ed el disordine de’ pisani, feciono subito ritirare adietro, e cosí si perdé una bellissima occasione di recuperare Pisa. La quale, se si seguitava la vittoria, era el dí assolutamente nelle mani nostre, ed e’ commessari n’ebbono nella plebe carico grande benché a torto, perché la ragione voleva che, traendo la cittadella facessino quello feciono, e se bene el fare altrimenti dava la vittoria, s’aveva a imputare piú tosto al caso che alla ragione. Stati di poi alcuni dí nel borgo di San Marco, e veduto che el castellano, o perché in secreto avessi cosí ordine dal re, o per altra cagione non voleva dare la cittadella, el campo nostro si partí, non vi faccendo frutto alcuno; e cosí furono vane tutte le imprese di questa state, nelle quali si spese tanta somma di danari, che vulgarmente e’ dieci che sedevano si chiamorono e’ dieci spendenti, che furono e’ primi dieci eletti dal popolo, uomini la maggior parte vecchi e tenuti buoni, ma poco pratichi a governare lo stato. Furonne capi messer Francesco Pepi e Filippo Buondelmonti.

Sopravenne poi di Francia monsignore di Lilla, mandato per questa restituzione, ed essendo per la venuta sua la città nostra in grande speranza, volle la sorte nostra che egli ammalò e morí in Firenze, dove fu sepulto, fattogli dal publico onore grandissimo; e finalmente doppo molti messi e lettere mandate di qua e di là, ci fu renduto solo Livorno nel quale era a guardia monsignore di Beumonte. El castellano di Pisa, avuto certa somma di danari da’ pisani, che ne furono serviti dal duca di Milano, dette loro la cittadella nuova che vi era stata edificata da’ fiorentini, la quale subito disfeciono, riserbatasi la vecchia che vi era anticamente. Pietrasanta venne in mano de’ lucchesi, avendola però a ricomperare dal re buona somma di danari; Serezzana in mano de’ genovesi; e cosí si dissipò lo stato nostro e si divise ne’ nostri vicini. Cosa miserabile a dire, che e’ genovesi, e’ sanesi, e’ lucchesi, e’ quali poco innanzi tremavano ~ le arme nostre, ora sanza rispetto alcuno lacerassino e si insignorissino del dominio nostro, non però colle forze e riputazione loro, ma usando per instrumento un re di Francia, el quale non tenuto conto de’ capitoli fatti con noi in Firenze e giurati in sull’altare sí solennemente, non delle convenzioni fatte di poi in Asti, non dell’avere osservato sí pienamente la fede, sí dandogli tanti danari, sí seguitando la parte sua soli in tutta Italia, perfidamente rivendé noi e le cose nostre agli inimici nostri.

E’ pisani potendosi male difendere da noi, si raccomandorono alla lega, e sendo accettati, vi entrorono in nome della lega gente del duca e de’ viniziani; e poco di poi el duca, o per inviluppare e’ viniziani in piú imprese e cosí consumargli in sulla spesa grande, o per altra cagione, gli richiese che soli rimanessino a Pisa. La quale cosa sendo consultata assai a Vinegia, e contradetta da messer Filippo Trono e molti altri gentiluomini vecchi a’ quali non piaceva entrare in tanti viluppi, e da altra parte confortata assai da messer Augustino Barbarigo doge e da’ suoi sequaci, e’ quali erano assai e piú giovani, finalmente si deliberò accettarla, e cosí e’ viniziani, uscendosene el duca, rimasono soli in Pisa con titolo di guardarla per la lega, in nome conservando a’ pisani la libertà, in fatto insignoritisi delle fortezze e disponendone a arbitrio loro. Fumo di poi tentati istantemente dalla lega, desiderando e’ signori collegati unire Italia per tôrre ogni pensiero al re Carlo di ritornarci; la quale cosa non fu acconsentita perché non ci volevano rendere Pisa, e non riavendo Pisa, non era a proposito della città la unione di Italia; anzi la disunione ci era utile e la passata del re Carlo ed ogni tumulto, e massime che el re Carlo tutto dí diceva agli oratori nostri (che vi era el vescovo de’ Soderini e Giovacchino Guasconi) volere ritornare in Italia e che cognosciuti tanti segni della fede nostra, e cosí e contra la perfidia de’ viniziani e del duca, volerci ristorare di tanti affanni e punire loro delle ingiurie gli avevano fatte.

Aggiugnevasi a questa disposizione le prediche di fra Ieronimo, el quale, doppo la cacciata di Piero ed ordinazione del consiglio grande, continuando nel predicare in Santa Liperata con maggiore audienzia che mai vi avessi predicatore alcuno, e dicendo apertamente essere stato mandato da Dio a annunziare le cose future, aveva molte volte affermate piú conclusione, cosí concernenti lo universale della religione cristiana, come el particulare della città nostra: aversi a rinnovare la Chiesa e riformarsi a migliore vita, induttavi non con beni e felicità temporali, ma con flagelli e tribulazione grandissime; avere prima a essere percossa e tribulata grandemente Italia di carestia, di peste, di ferro, ed avervi a entrare piú barbieri esterni, e’ quali coll’arme la raderebbono insino alle ossa; aversi prima a mutare gli stati di quella, non vi si potendo resistere con consiglio, con danari e con forze; la città nostra avere a patire tribulazione assai e ridursi a uno pericolo estremissimo di perdere lo stato, nondimeno perché la era stata eletta da Dio dove si avessi a predire tanta opera, e perché di quivi s’aveva a spargere in tutto el mondo el lume della rinnovazione della Chiesa, però che la non aveva a perire, anzi che quando bene si perdessi tutto el dominio nostro, sempre la città si salverebbe, ed in ultimo ricotta co’ flagelli a una vera vita e semplicità cristiana, recupererebbe Pisa e tutte le altre cose perdute; non però con aiuti e mezzi umani, ma col braccio divino, ed in tempo che nessuno vi spererebbe ed in modo che nessuno potrebbe negare non essere immediate state opera di Dio; acquisterebbe ancora molte altre cose che non furono mai sue, e diventerebbe molto piú florida, piú gloriosa e piú potente che mai; lo stato populare e consiglio grande, introdotto in quella, essere stato per opera di Dio, e però non s’avere a mutare, anzi qualunque lo impugnassi, capiterebbe male; aggiugnendo che queste cose avevano a essere sí preste, che non era alle prediche sue nessuno uomo sí vecchio, che vivendo quanto poteva vivere secondo el corso naturale, non le potessi vedere. Disse ancora molti altri particulari, e circa alle persecuzione aveva a patire cosí spirituale come temporale; le quali cose lascio indrieto, perché non fanno a proposito della materia presente, e perché ci sono in piè e stampate le prediche sue, che ne possono dare chiara notizia.

Questo modo di predicare cosí l’aveva recato in odio al papa, perché nel predire la rinnovazione della Chiesa detestava e mordeva molto scopertamente e’ governi e costumi de’ prelati, avevonlo recato in odio a’ viniziani ed al duca di Milano, parendo loro che e’ favorissi la parte di Francia e fussi cagione con questi modi suoi che la città non si accordassi colla lega, avevano ancora fatto diversi umori nella città, perché molti cittadini, o per non prestare naturalmente fede a queste cose, o perché dispiaceva loro el governo populare, quale vedevano caldamente essere favorito e mantenuto da lui, molti ancora perché prestavano fede a’ frati di San Francesco ed agli altri religiosi, che tutti vedendo la riputazione de’ frati di San Marco, si gli erano opposti; molti ancora uomini viziosi, a’ quali dispiaceva che lui, detestando la soddomia e gli altri peccati ed e’ giuochi, aveva molto ristretto el modo del vivere: tutti insieme si gli erano levati fieramente contro; perseguitandolo in publico ed opponendosi quanto potevano alle opere sue Eranne capi Piero Capponi (benché lui, vedendo la potenzia dell’altra parte, qualche volta balenassi, qualche volta simulassi), Tanai de’ Nerli ed e’ figliuoli, massime Benedetto ed Iacopo; Lorenzo di Pierfrancesco, Braccio Martelli, e’ Pazzi, messer Guidantonio Vespucci, Bernardo Rucellai e Cosimo suo figliuolo, e’ quali avevano coda di Piero degli Alberti, Bartolomeo Giugni, Giovanni Canacci, Piero Popoleschi, Bernardo da Diacceto e molti simili.

Da altra parte erano molto favorite e commendate le opere sue da molti cittadini: alcuni naturalmente inclinati al credere per bontà di natura e vòlti alla religione, ed a chi pareva che le opere sue fussino buone e che le cose predette da lui tutto dí si verificassino; alcuni maligni e di cattiva fama, per ricoprire le opere sue ed acquistare nome buono con questo mantello di santità; alcuni uomini, secondo el mondo, costumati, vedendo el favore e la potenzia aveva questa parte, per correre piú agli ufici ed acquistare stato e riputazione piú col popolo. Eranne capi Francesco Valori, Giovan Batista Ridolfi e Paolantonio Soderini, messer Domenico Bonsi, messer Francesco Gualterotti, Giuliano Salviati, Bernardo Nasi ed Antonio Canigiani. Contavacisi anche drento Pierfilippo Pandolfini e Piero Guicciardini, e’ quali però nelle controversie ne nascevano, si portavano moderatamente ed in forma che non erano interamente annoverati fra loro; avevano coda da Lorenzo e Piero Lenzi, Pierfrancesco e Tommaso Tosinghi, Luca d’Antonio degli Albizzi, Domenico Mazzinghi, Matteo del Caccia, Michele Niccolini, Batista Serristori, Alamanno ed Iacopo Salviati, Lanfredino Lanfredini , messer Antonio Malegonnelle, el quale non era molto innanzi per conto dello stato vecchio, benché Pierfilippo Pandolfini di già fussi stato fatto de’ dieci ed avessi riavuto la riputazione; Francesco d’Antonio di Taddeo, Amerigo Corsini, Alessandro Acciaiuoli, Carlo Strozzi, Luigi dalla Stufa, Giovacchino Guasconi, Gino Ginori e molti simili. Aggiugnevasi lo universale del popolo, del quale molti erano inclinati a queste cose, ed in modo che, sendo in odio ed in cattivo nome e’ persequitori sua, ed e converso e’ fautori accetti e grati assai, gli onori ed e’ magistrati della città si davano sanza comparazione molto piú agli uomini di questa parte che agli altri; e però sendo in tanta potenzia e’ fautori sua, e parendo loro che secondo le sue predizione, e’ potentati di Italia avessino a capitare male, ed interpretando di nuovo el re di Francia avere a essere vittorioso, oltre alle altre ragione che gli movevano, erano causa che la città non si accostassi colla lega. E cosí sendo nata una grandissima divisione ed odio capitale negli animi de’ cittadini, ed in forma che in molti fratelli, in molti padri e figliuoli era dissensione per conto delle cose del frate, nasceva un altro disparere grandissimo: che tutti quegli favorivano el frate, tenevano la parte di Francia, quegli lo disfavorivano arebbono voluto accordarsi colla lega.

Nel fine di detto anno 1495 si murò e finí sopra la dogana la sala grande del consiglio, e vi si ragunò tutto el popolo a fare la nuova signoria. avendovi prima predicato fra Ieronimo; e fu creato gonfaloniere di giustizia, che entrò in calendi di marzo, Domenico Mazzinghi e cosí tutto dí si augumentava e cresceva el vivere popolare.