Sull'Atlante/7. La fuga

Da Wikisource.
7. La fuga

../6. La vendetta di Afza ../8. Fra la bufera e l'acqua IncludiIntestazione 28 dicembre 2017 75% Da definire

6. La vendetta di Afza 8. Fra la bufera e l'acqua

7.

LA FUGA


Mentre Afza affrontava audacemente il maresciallo, il conte ed il suo compagno, già avvertiti dal bravo sergente della vicinanza di Hassi-el-Biac coi mahari, lavoravano furiosamente per tagliare gli anelli delle loro catene.

L'uragano imperversava coprendo il lievissimo rumore prodotto dalle lime. Il tuono faceva udire di quando in quando la sua voce, e dei lampi abbaglianti illuminavano di tratto in tratto la cella, permettendo ai prigionieri di rendersi conto del lavoro compiuto.

— Che cosa vi hanno messo dentro a queste catene? — diceva il toscano, il quale sudava copiosamente. — Eppure la lima dell'arabo morde come se avesse i denti di un pescesega.

— Non le fabbricano già col burro — rispondeva il conte, il quale s'accaniva non meno rabbiosamente contro gli anelli.

— Sei avanti tu, camerata?

— Quella dei piedi è già stata segata.

— E la mia non ancora. Ma tu sei molto più forte di me e poi hai nelle vene il fuoco sacro del Raggio dell'Atlante, mentre io non ho che la mia febbre. È una magnifica terzana, che non mi vuole assolutamente lasciare.

— La manderai a passeggiar fra le foreste dell'Atlante. Vedrai che lassù ti rimetterai completamente, amico.

— Non siamo ancora sulla montagna.

— Hassi e Afza ci aspettano.

— Con questa pioggia! Allo scoperto!

— Lo dubiti, Enrico?

— Un poco.

— Allora non conosci gli arabi.

— Veramente li conosco per le loro lime. Sai, conte, che questa scaglia sì dolce morde terribilmente? Ecco la catena dei piedi segata.

— Attacca quella delle braccia.

— Per centomila sogliole fritte! Fa caldo, conte! Mi pare d'esser dentro un forno.

— Ti rinfrescherai fuori.

I due carcerati, pur chiacchierando, non cessavano di lavorare con ardore, facendo scorrere furiosamente le minuscole lime sugli anelli delle catene.

Al di fuori l'uragano ingrossava. Scoppi secchi si succedevano, scoppi che parevano colpi di cannone seguiti da brontolii cupi e minacciosi. Il vento ululava sinistramente attraverso la inferriata e fra le tettoie di zinco del bled. Lavoravano da un paio d'ore quando il conte si precipitò giù dal tavolato, esclamando con accento di trionfo: — Sono libero!

— E fra due minuti spero di esserlo anch'io — rispose il toscano.

— Vuoi che ti aiuti?

— Occupati dell'inferriata, conte. Tu sei robusto quanto Attila, il flagello di Dio, come lo hanno chiamato i miei antenatissimi.

In quell'istante udirono, fra il rombare dei tuoni e lo scrosciare della pioggia, echeggiare degli squilli di tromba.

— Corpo d'un... — esclamò il toscano, impallidendo.

— La ritirata! — disse il conte. — A quest'ora? Se l'hanno suonata alle otto!...

— Che cosa vorrà significare, conte?

— Non lo so — rispose l'ungherese, il quale appariva vivamente inquieto.

— Che chiamino a raccolta gli spahis per condurci ad Algeri?

— Con questo tempaccio? È impossibile, Enrico.

— Eppure, qualche cosa di straordinario deve essere avvenuto: che il bled abbia preso fuoco?

— Con questa pioggia!

— Per la morte di tutte le sogliole del Mediterraneo e di tutti gli avvocati bocciati! Perché suonare le trombe dunque?

L'ungherese invece di rispondere, gli chiese:

— Ti manca poco, mi hai detto?...

— Ancora otto o dieci colpi di lima.

— Attacca più rapidamente che puoi. Io penso alle sbarre. Lasciamo suonare il trombettiere e noi teniamoci pronti ad andarcene. Ribot ci ha detto che Hassi ed Afza ci aspetteranno questa sera nella pianura e qualunque cosa debba succedere, li raggiungeremo. Se noi perdiamo questa occasione non la ritroveremo più, ed andremo a dormire sotto le zolle sabbiose d'Algeri. Al lavoro, camerata.

Girò intorno al tavolato, e si accostò, trepidante, alla finestra. Gli era sorto il dubbio che Steiner non avesse curvato abbastanza le grosse sbarre di ferro.

Uno sguardo solo lo persuase che il povero ungaro aveva chiamato a raccolta tutti i suoi possenti muscoli per aprirgli una via.

— Povero diavolo! — mormorò. — È stato, almeno una volta, nella sua disperata esistenza, leale. Le sabbie del bled ti siano leggere.

Come abbiamo già detto, anche il magnate possedeva una forza erculea che poteva, almeno fino ad un certo punto, competere con quella del defunto carnefice del bled.

Afferrò la prima sbarra e strappò con furore. Il ferro, già piegato, si curvò maggiormente, ed uscì subito dalla parete. La seconda, la terza e la quarta cedettero egualmente insieme alle sbarre trasversali.

— Ho finito! — disse in quel momento il toscano.

— Anch'io — rispose il magnate.

— Sei un leone tu, o Ercole in persona?

— Lo era Steiner.

L'avvocato bocciato era sceso giù a sua volta dal tavolato e si era messo accosto al conte, il quale stava levando due sbarre per servirsene in caso di pericolo.

— Ecco un bel buco! — esclamò. — Vi è però la grata.

— Che io strapperò, se tu mi aiuti.

— Un rinforzo da rinoceronte o da elefante — disse il toscano sorridendo malinconicamente. — Il bled mi ha mangiato i muscoli o meglio sono state le febbri che me li hanno divorati. Eppure un giorno, a bordo del brick di mio padre, ho allungato ad un marinaio prepotente un calcio tale, da mandarlo all'ospedale per venti giorni.

— Lavorerai allora coi piedi.

— E le sentinelle?

— Con questi tuoni! Sono sorde di sicuro, più delle talpe. Aiutami, camerata.

La grata, costruita di legno, non doveva offrire una lunga resistenza. Attaccata a pugni ed a calci cadde ben presto al di fuori, lasciando ai due prigionieri la via libera.

— Ce ne andiamo? — chiese il toscano, il quale aspirava avidamente quell'aria umida che penetrava libera nella cella, dove invece si soffocava.

— Aspetta un po'. In questi affari non bisogna aver troppa fretta. Un colpo di fucile si fa presto a spararlo.

— Che ci siano delle sentinelle al di fuori?

— Chi può saperlo? Io non ho gli occhi dei gatti.

Prese una sbarra e fece cenno al toscano di fare altrettanto. Non potevano certamente aver ragione delle armi da fuoco, tuttavia trovandosi a corpo a corpo potevano diventar formidabili istrumenti di morte.

Il conte per la decima volta guardò al di fuori.

La tempesta infuriava. Lampi vivissimi illuminavano la pianura; la pioggia cadeva a torrenti; il vento ululava sempre attraverso le ampie tettoie del bled e il tuono rumoreggiava.

— Vedi nessuno, conte? — chiese il toscano, il quale vista la finestra aperta non poteva più star fermo.

— No.

— Allora la ritirata?...

— Avranno fatto rientrare le sentinelle. Tu sai che alcune settimane sono un fulmine ha ammazzato tre o quattro uomini.

— Me ne ricordo.

— Il maresciallo le avrà fatto retrocedere fino alle tettoie.

— Uragano benedetto!

— Sei pronto?

— Sì, conte.

— Hai la sbarra? Potrebbe esserci necessaria.

— L'ho in pugno.

— Salta!

L'ungherese era già a terra. Il toscano lo seguì, ma rimasero entrambi l'uno vicino all'altro per aspettare che un lampo illuminasse la pianura. Qualche sentinella poteva trovarsi appoggiata contro le muraglie del bled e sparare addosso a loro magari a bruciapelo, poiché nelle compagnie di disciplina i sorveglianti hanno l'ordine formale di non avere alcuna pietà per i detenuti che tentano di prendere il largo.

Un lampo, seguito da un tuono spaventevole, illuminò finalmente la vasta pianura, che si estendeva al sud del bled.

— Ho veduto dei mahari — disse il conte con viva emozione. — Un uomo li guardava.

— Tuo suocero?

— Credo di sì.

— E Afza?

— Mi aspetterà al duar.

L'ungherese ignorava in quel momento che il Raggio dell'Atlante stava cenando col maresciallo, poiché Ribot, sempre prudente, si era ben guardato dal dirglielo, per non intralciare la loro fuga.

— Hai veduto nessuna sentinella? — chiese il toscano.

— No — rispose l'ungherese.

— Allora possiamo far correre le gambe.

— Il momento mi sembra opportuno. Corri più che puoi, e quando un altro lampo illumina il cielo, lasciati cadere a terra di colpo, come fanno i ladri di cavalli della putza.

— Diventiamo anche noi ladri di cavalli, allora, quantunque non ve ne siano fuori dal bled.

I due uomini si erano slanciati a corsa disperata, sotto la pioggia che scrosciava violentissima.

Il conte aveva già rilevato, più o meno esattamente, dove aveva scorti i mahari, e si dirigeva da quella parte con la velocità di un fulmine.

Un grido lo fermò:

— Chi è là?

— Michele!

Era Hassi-el-Biac che aveva lanciato quel grido. Il moro, vedendo quelle due ombre, aveva armato rapidamente il suo lungo fucile algerino col calcio ricurvo, che fino allora aveva tenuto con circospezione nascosto sotto il pesante mantellone di feltro, impermeabile alla pioggia, e l'aveva ben presto puntato.

— Tu! — esclamò Hassi. — Allah sia benedetto! E Afza?

— Afza! — gridò l'ungherese, fermando il toscano che stava per battere la testa contro i quattro mahari che si erano accovacciati l'uno presso l'altro, spaventati dall'infuriare dell'uragano. — Dov'è mia moglie, Hassi?

— Non l'hai veduta al bled?

— Al bled, hai detto?

— È andata a uccidere il maresciallo.

— Ma chi?

— Afza!

— Perché?

— Per lasciar tempo a te di fuggire.

— Ah! Disgraziata! — gridò il conte.

Il moro si avvicinò al conte, e posandogli le mani sulle spalle gli disse con voce grave:

— L'arabo ha buon sangue nelle vene e lo trasmette puro anche alle figlie. Che cosa temi tu? Il Raggio dell'Atlante si è armata del miglior pugnale di suo padre ed a quest'ora probabilmente quell'arma si trova confitta nel petto del comandante del bled. Io rispondo del coraggio e dell'audacia di mia figlia, conte.

Invece di rispondere al moro, l'ungherese si volse verso il toscano, il quale pareva intontito.

— Hai ancora la sbarra di ferro?

— Sì, camerata — rispose l'avvocato bocciato.

— Andiamo a salvare Afza, mia moglie!

— Se non vuoi altro!

Stavano per prendere la corsa verso il bled, quando il moro afferrò stretto il conte per le braccia.

— Che cosa vuoi fare tu? — gli chiese.

— Salvare mia moglie.

— Con quei bastoni di ferro? A che cosa ti servirebbero contro i fucili dei guardiani?

— Dammi il tuo, allora!

— Non è necessario. Sotto le gualdrappe dei mahari vi sono carabine e pistole, ma ti ripeto che tu devi rimanere qui ed aspettare mia figlia, o meglio, tua moglie. Sei riuscito a scappare, tutto è pronto per la fuga: perché vuoi esporti al pericolo di farti riprendere? Guarda: ecco Ani che giunge con tre altri mahari di scorta, che portano i viveri e le mie ricchezze. Aspetta dunque: non avresti più fiducia nel Raggio dell'Atlante?

Il conte, in preda ad una terribile perplessità, guardava il moro alla luce intensissima dei lampi, mormorando:

— E Afza? E Afza?

Hassi-el-Biac con un sibilo fece alzare i quattro mahari, sollevò le gualdrappe, tolse due pesanti caffettani di feltro e due lunghi fucili, e li porse al conte ed al toscano, dicendo:

— Aspettiamo, armati, pronti a proteggere la ritirata del Raggio dell'Atlante. Tu sei il suo signore, io sono suo padre, il tuo compagno è l'amico ed Ani il servo fedele. Se gli spahis la inseguiranno noi sapremo difenderla.

— Ma Afza è nel bled?

— Forse che non ha il pugnale di suo padre? Perché è andata dal maresciallo armata? Voi, gente dell'Europa, non avete dunque ancora compreso come sono le vendette arabe? Domani il comandante non sarà più vivo, o per lo meno non si troverà bene come stamani. Tutto dipende dal colpo di mano: so però che Afza ha il pugno solido e l'anima fredda nei momenti supremi.

— Eppure non sono tranquillo, Hassi.

— Vuoi andare?

— È mia moglie.

— Ani, i fucili e le pistole al conte. Egli ha il diritto di vegliare sulla sua donna.

Il vecchio negro s'avvicinò ai mahari e tolse le armi domandate, porgendole al conte ed al toscano.

I due legionari stavano per slanciarsi attraverso la pianura, quando Hassi li raggiunse:

— Vi accompagno — disse. — Un fucile di più e che non fallisce quasi mai non nuocerà.

L'uragano ruggiva tremendo in quell'istante. Raffiche caldissime spazzavano l'ampia pianura tramutata oramai in un immenso pantano, curvando, con mille strani scricchiolii, i cespugli e le rade palme, le cui foglie piumate toccavano quasi terra.

L'acqua, accumulata nelle depressioni del terreno, scintillava sotto tutto quel balenìo, accecando talvolta i tre uomini. Vi erano certi momenti che pareva si tramutasse in zolfo o in bronzo fuso.

Di quando in quando un fulmine attraversava la pianura, quasi a livello del suolo, fiammeggiando sinistramente, e si sotterrava schizzando altissimi sprazzi di fango e lasciando indietro un acuto odore di zolfo.

Vi era il pericolo di essere uccisi sul colpo da qualcuna di quelle formidabili scariche elettriche, ma i tre uomini continuavano in silenzio la loro marcia, tenendosi curvi per meglio resistere alle raffiche e di null'altro preoccupati che di tenere ben riparate le batterie dei loro lunghi fucili.

Avevano già percorso due o trecento passi, affondando nel fango fino alle ginocchia, quando alla luce d'un lampo scorsero Afza, la quale correva disperatamente attraverso la pianura.

Il magiaro le si era slanciato incontro.

— Il mio Raggio dell'Atlante! — aveva esclamato. — Qui, Afza!

La giovane donna aveva anch'essa scorti i tre uomini, e si dirigeva verso di loro, balzando coll'agilità d'una gazzella, mentre verso il bled si udivano squillare le trombe e grida altissime.

— La mia Afza! — esclamò il conte accogliendola fra le braccia, e fermandola in piena corsa.

— Il mio signore!

— Che cos'è succeduto al bled?

— Ho ucciso...

— Chi?

— Il maresciallo! Fuggiamo! Gli spahis mi danno la caccia!

— Ah! La vedremo! — tuonò l'ungherese con accento selvaggio.

— Ani! — gridò Hassi.

Il vecchio e fedele negro aveva già veduto la giovane padrona ed accorreva guidando i mahari che aveva legati l'un dietro l'altro, testa contro coda.

Al bled le trombe squillavano furiose. Si suonava clamorosamente il buttasella.

— A me, Ani! — ripetè Hassi.

— Eccomi, padrone! — rispose il negro, il quale guidava, correndo, il mahari di testa.

— Afza, — disse il conte, il quale pareva in preda ad una viva emozione — chi ti ha fatto fuggire?

— Ribot!

— Ah! Bravo camerata! E l'hai ucciso quell'ignobile carnefice del bled?

— Chiamalo, quel cane d'un maresciallo! — disse il toscano.

— L'ho pugnalato — rispose freddamente il Raggio dell'Atlante. — L'avevo giurato a mio padre.

— In sella! — gridò in quel momento Hassi-el-Biac, il quale aveva dato un rapido sguardo alle bardature. — Gli spahis giungono.

Il conte prese Afza come se fosse una bambina e la mise sul mahari favorito, poi tutti si arrampicarono sulle altissime selle senza perdere tempo a far inginocchiare gli animali.

Sulla pianura, sempre illuminata dai lampi e battuta dalla folgore, s'avanzava rapidissimo un plotone di cacciatori d'Africa uscito dal bled.

— Via! — gridò Hassi.

I sette mahari, poiché due portavano i viveri, le munizioni e le ricchezze del moro, appena udirono il fischio partirono a corsa sfrenata, alzando ed abbassando la testa come se zoppicassero, ma divorando invece la via con maggior impeto dei migliori cavalli arabi, spronati anche da quell'incessante balenìo e dal rombare crescente dell'uragano.