Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO III - L'attacco degli Sioux

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CAPITOLO III - L'attacco degli Sioux

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CAPITOLO II - Il grande cavallo bianco CAPITOLO IV - Le stragi del 1863
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CAPITOLO III.


L’attacco degli Sioux.


Mentre i valorosi volontari, rimessisi un po’ dalla prima emozione, occupavano fortemente lo sbocco della gola che era per fortuna stretto e difeso da enormi rocce, il colonnello e l’indian-agent tornarono correndo verso la tenda, in preda ad una vivissima ansietà.

Quando entrarono, la piccola indiana dormiva ancora, o almeno fingeva di dormire.

— Dammi la carta, John, — disse il colonnello, il quale era scosso da un forte tremito, come se presentisse una imminente sciagura.

— Eccola, signor Devandel, — rispose il gigante. — Perchè quell’indiano abbia arrischiata la vita, deve contenere delle cose molto gravi. —

Il colonnello spiegò la carta che aveva delle macchie di grasso e vi gettò sopra gli sguardi.

Un grido terribile gli sfuggì subito, e fu tale l’emozione che fu costretto, lui, uomo di guerra ed abituato a tutte le più tremende avventure, ad appoggiarsi ad un palo della tenda.

— Signor Devandel!... — esclamo l’indian-agent, spaventato. — Che cosa avete?

— Te lo dicevo io, — disse il colonnello, con un sordo singhiozzo.

— I miei figli!... I miei figli!...

— Rapiti? — chiese il gigante, impallidendo.

— Forse non ancora, ma questa carta dava l’ordine a Mano Sinistra, il grande capo degli Arrapahoes, ed a Caldaia Nera, l’altro sakem, di distruggere la mia fattoria e di rapire i miei figli, prima di unirsi ai Chayennes.

— Dato da chi?

— Da Yalla. Ah!... I miei poveri figli!... —

L’indian-agent alzò un lembo della tenda per ascoltare se si udiva ancora l’ikkiskota, poi rassicurato dal silenzio che regnava verso la gola del Funerale, empì un bicchiere di gin e lo porse al colonnello che pareva come istupidito, dicendogli:

— Suvvia, bevete prima di tutto, signor Devandel, e giacchè gli Sioux ci lasciano un po’ di tregua, discorriamo.

Io non credo che vi sia motivo di preoccuparsi tanto, ora che siamo [p. 31 modifica]stati tanto fortunati da arrestare nella sua corsa l’Uccello della Notte e anche di fucilarlo.

La vostra fattoria si trova sulle rive del Lago Salato e per raggiungerla ci vogliono molte giornate.

— E se qualche altro corriere fosse passato? — chiese il disgraziato colonnello.

— L’avremmo veduto.

— Può aver preso un’altra via, più lunga ma più sicura. Tu sai come corrono questi Indiani d’inferno quando sono sui loro mustani. Si fermano appena per poche ore nella notte.

— Questo è vero, signor Devandel, — disse l’indian-agent, un po’ preoccupato. — Si potrebbero però sorpassare quegli altri corrieri, costretti a fare il giro di tutte le catene di montagne.

— I miei figli!... — gemette il colonnello. — Guai se cadessero nelle mani di Yalla!...

— Voi non potete abbandonare questo posto affidatovi dal Governo. Aprireste la via del Colorado a tutte le orde degli Sioux.

— E non l’abbandonerò, — rispose il signor Devandel, asciugandosi la fronte madida di sudore — eppure io non posso lasciare scannare i miei figli dalle tigri della prateria.

— Avete ragione.

— Che cosa mi consigli di fare?

— Mandarmi, con un paio di compagni, alla fattoria di San Felipe e mettere in salvo i vostri figli prima che Mano Sinistra possa ricevere i corrieri di Yalla.

— Tu saresti capace di far tanto? Non sai che tutte le praterie sono in mano degl’insorti?

— Si possono evitare, colonnello. E poi so che vi è ancora qualche corriera a Kampa che deve porre in salvo dei coloni.

Saremo così in buon numero, almeno fino sulle rive del grande Lago Salato.

— Chi vorresti per compagni?

— Harry e Giorgio, i due scorridori della prateria, bravi e leali compagni che conoscono a fondo tutte le astuzie del crudele pellerossa, e che per di più posseggono dei mustani che possono gareggiare col mio.

— Accetteranno?

— Con me verranno subito.

— Arrischieranno le loro capigliature.

— Sapranno anche difenderle, poichè sono meravigliosi tiratori. Colonnello, non perdiamo tempo. Giacchè gli Sioux ci accordano una tregua, approfittiamone.

— E questa fanciulla?

— La porterò con me, signor Devandel. Se è la figlia di qualche capo, anche che non fosse di Mano Sinistra, sarebbe sempre un ostaggio [p. 32 modifica]prezioso nelle mie mani, poichè non è affatto vero che gl’Indiani si disinteressano della loro prole, come si crede.

— Tu che li hai frequentati per tanti anni, puoi saperlo meglio di qualunque altro.

— Vado a chiamare i due scorridori e ad insellare i cavalli.

— Che cosa potrò fare per te, mio buon John?

— Lasciate che salvi i vostri figli, colonnello, — rispose l’indian-agent. — Io sono soldato e devo obbedirvi, e poi siamo in guerra e tutti dobbiamo lottare.

— Sbrigati, amico. —

Il gigante prese una sella monumentale, il suo rifle, un paio di pistole dalla canna lunghissima che mise a lato del bowie-knife, poi uscì quasi correndo, mentre il colonnello scuoteva la piccola indiana e le scioglieva le corde, dicendole:

— Preparati a partire. —

Minnehaha sgranò i suoi occhi neri e furbi e li fissò sul colonnello intrepidamente.

— Per dove? — chiese.

— Ti faccio condurre da Mano Sinistra.

— Se l’Uccello della Notte è morto!...

— Vi saranno degli altri che s’incaricheranno di portarti fra gli Arrapahoes.

— Indiani?

— Bianchi.

— Tu?

— No, piccina mia: io devo guardare le frontiere degli Sioux.

— Perchè sei tu il capo incaricato di chiudere loro il passo, è vero?

— Chi te lo ha detto? — chiese il colonnello.

— L’Uccello della Notte.

— Mi temono forse gli Sioux?

— Ti vedrebbero volentieri lontano.

— Tu parli come una donna e non già come una fanciulla. —

Minnehaha scrollò le spalle, strinse i pugni sotto il suo pesante mantello di lana di montone selvatico e dardeggiò sul colonnello uno sguardo feroce.

— Perchè mi vuoi mandar via? — chiese. — Rimarrei volentieri con te.

— Perchè? Mano Sinistra non ti aspetta?

— Perchè amo gli uomini bianchi e perchè il gran capo degli Arrapahoes può aspettarmi senza inquietarsi.

— Sei sua figlia?

— Non lo so.

— Come ti trovi fra gli Sioux se sei una arrapahoes?

— Non lo so.

[p. 35 modifica]— L’Uccello della Notte era forse tuo fratello? —

La piccola indiana si serrò indosso, con maggior forza, il mantello, poi ripetè per la terza volta:

— Non lo so.

— Non eri presso una donna tu?

— Sì.

— La figlia del sakem Moha-ti-Assah? Yalla?

— Non so come si chiamasse, — rispose l’indiana.

— Alta, bruna, con due occhi di fuoco?

— Mi pare.

— Parla una buona volta! — gridò il colonnello, furibondo.

— Io non so nulla: sono troppo giovane.

— Dimmi almeno che cosa fanno gli Sioux.

— Sono in armi: ecco tutto.

— Ed aspettano di congiungersi coi Chayennes e gli Arrapahoes per continuare le loro stragi, è vero?

— Oh, io non so! —

In quell’istante si udì al difuori lo scalpitìo di alcuni cavalli, poi la voce dell’indian-agent:

— Signor Devandel, noi siamo pronti a partire. —

Il colonnello fu lesto ad uscire dal wigwam.

John ed i due scorridori della prateria erano là, armati fino ai denti.

— Le vostre ultime istruzioni, signor Devandel, — disse l’indian-agent. — Sbrigatevi, perchè pare che gli Sioux si preparino a forzare la gola.

Eh, la nottata sarà cattiva per tutti, credo!

— Salva i miei figli e null’altro, — rispose il colonnello. — Se non potrai difendere la fattoria, abbandonala agl’Indiani e cerca di raggiungermi al più presto.

— Se la morte non ci coglie, voi li rivedrete, signor Devandel, — rispose l’indian-agent, con voce commossa. — È vero, amici?

— Contate su di noi, colonnello, — risposero i due scorridori della prateria.

— Grazie, amici: che Iddio vi protegga!...

— Ah! E la piccola indiana? — chiese l’indian-agent. — Dov’è?

— Te la mando subito.

— Il colonnello fece ai tre valorosi un gesto d’addio e rientrò nella tenda.

Non si era ancora voltato, quando si sentì assalire alle spalle e conficcare nel dorso una lama.

Il dolore era stato così intenso che cadde subito, senza pronunciare una parola.

Minnehaha, la piccola indiana, l’aveva attaccato colla ferocia selvaggia d’un giaguaro, e gli aveva piantato nelle carni un machete [p. 36 modifica]messicano, a lama spadiforme, che aveva poco prima preso fra le armi sospese ai pali, mormorando:

— Ecco la via aperta agli Sioux. —

Poi, spiccato un salto da pantera, si era slanciata fuori, gridando:

— Dove devo montare?

— Dietro di me, — disse l’indian-agent, prendendola per un braccio e sollevandola come una piuma.

Una scarica in quel momento rimbombò verso la gola.

— Via, amici!... — gridò John. — Addio, colonnello!... Tenete testa a quei vermi!... —

Poi, senza attendere altro, i tre cavalieri, per paura di vedersi assaliti nelle gole sottostanti, lanciarono a corsa sfrenata i loro mustani, mentre le scariche si seguivano alle scariche, implacabili, tremende, rumoreggiando sinistramente fra le alte rocce che cadevano quasi a piombo intorno all’accampamento americano.

Urla terribili s’alzavano di tratto in tratto: gli Sioux, prima di forzare la gola, lanciavano il loro intraducibile urlo di guerra, che sembra composto da una serie di latrati furiosi.

Dinanzi ai fuggiaschi s’apriva un canon, ossia una gola assai ripida, fiancheggiata da enormi gruppi di cedri, di pini, di ortensie, in mezzo ai quali si udivano scrosciare migliaia e migliaia di torrenti invisibili.

L’indian-agent, che conosceva a menadito tutti i territorî del centro dell’Unione, che aveva percorsi per tanti anni servendo come intermediario fra le pelli-rosse ed i trafficanti delle praterie, si era slanciato nel burrone, gridando ai compagni:

— Sorreggete i cavalli!... Lasciate che gli altri si battano.

Avremo più tardi anche noi la nostra parte. D’altronde la gola non è facile a prendersi.

Piccina, tienti stretta, se non vuoi spaccarti il cranio!... Là, così, al galoppo amici!... —

John Maxim montava un cavallo di statura quasi gigantesca, un bellissimo pezzato, dagli occhi ardenti e da criniera lunghissima, adatto a portare un uomo che pesava non meno d’un quintale.

L’intelligente animale, abituato alle guerriglie indiane, comprendendo che il suo padrone correva forse qualche pericolo, si era gettato nel canon con piena sicurezza, tenendo alta la testa e puntando fortemente le robustissime zampe.

I due mustani di Harry e di Giorgio, l’uno tutto nero che sembrava un velluto e l’altro invece tutto grigio colla criniera invece candidissima, entrambi di razza spagnuola, l’avevano seguito senza esitare, nitrendo giocondamente.

Avevano percorsi tre o quattrocento passi, saltando le rocce che coprivano il fondo del canon, quando fra i colpi di fucile che non cessavano di rimbombare, i tre volontari della frontiera udirono, con loro non poco stupore, delle voci chiamare insistentemente:

[p. 37 modifica]— Colonnello!... Colonnello!...

John Maxim aveva trattenuto per un istante il suo cavallone, mentre un crudele sorriso era spuntato sulle labbra della terribile fanciulla.

— Harry, hai udito? — chiese, con voce un po’ alterata.

— Sì, John.

— E tu, Giorgio?

— Anch’io.

— I volontari chiamavano il colonnello, è vero?

— Verissimo, — risposero i due fratelli.

— Che gli sia toccata già qualche disgrazia?

— È impossibile, — disse Harry. — È fra i suoi uomini e gl’Indiani non possono prendere il campo a rovescio. To’!... Non si odono più che le scariche!... Si combatte forte lassù!... Peccato non esserci anche noi. —

L’indian-agent, poco convinto, attese qualche momento ancora; ma sulla montagna regnava un fracasso così infernale da non lasciar sentire una chiamata.

Gli Sioux, certamente radunatisi in gran numero nella gola del Funerale, dovevano aver dato un assalto furioso, decisi a lasciare le loro vette per scendere nella grande prateria e dare una mano ai Chayennes che dovevano venire da oriente, ed agli Arrapahoes che operavano invece verso ponente mettendo tutto a ferro ed a fuoco.

— Forse avrà raggiunto i suoi soldati, — disse il gigante. — Non è uomo da indietreggiare in faccia a nessun pericolo e non a torto lo hanno chiamato il giaguaro dell’Utah.

— Si va? — chiesero i due scorridori, i quali udivano già qualche palla sibilare in alto.

Anda, — rispose l’indian-agent, allentando le briglie e stringendo invece le ginocchia. — Sta’ salda in sella, piccina!... —

I tre cavalli ripresero la corsa, mentre le urla di guerra degli Sioux diventavano sempre più intense e la moschetteria aumentava.

In meno di venti minuti percorsero tutto il primo canon, attraversarono delle piattaforme rocciose e s’incanalarono in un secondo, più vasto, i cui fianchi erano coperti di vegetazione ricchissima.

Sotto di loro, a notevole distanza, rischiarata dalla luna, si stendeva l’immensa, la sconfinata prateria, paradiso dei bisonti giganteschi e delle antilopi dalle corna forcute, e paradiso anche del feroce indiano, sempre pronto a difenderla contro l’implacabile invasione dell’uomo pallido destinato a distruggere ormai la razza rossa.

Alia fine del secondo canon i tre cavalieri accordarono un breve riposo ai loro mustani e si misero ansiosamente in ascolto.

Sulla montagna si schioppettava sempre e probabilmente, come [p. 38 modifica]sempre, i rifles dei volontari delle frontiere, facevano meraviglie contro i pelli-rosse.

— È una vera battaglia, — disse l’indian-agent, il quale non sembrava affatto tranquillo. — Potevano ben attendere un po’ quei cani di Sioux.

Dovevano proprio questa notte dare l’attacco alla gola?

— Torneresti lassù? — chiese Harry.

— Subito, camerata, — rispose il gigante — e specialmente assieme a voi. Noi abbiamo sottratto alla difesa tre carabine che non sbagliano mai, poichè so quanto valgono le vostre.

Che il diavolo si porti l’Uccello della Notte, Yalla e Mano Sinistra!

Potevano lasciare tranquilli i figli del colonnello, specialmente in questi momenti.

Sempre feroce e vendicativo l’indiano!...

— Giungeremo in tempo per salvarli? — chiese Giorgio.

— Tutto dipende dalla velocità dei nostri cavalli e dalla fortuna.

To’! Pare che le fucilate rallentino. Che gli Sioux se le siano prese? Anda, camerati!

Raggiungiamo la pianura e poi tentiamo di partire coll’ultima corriera di Kampa.

— Se gl’Indiani non ci daranno la caccia, — disse Giorgio.

— Se i volontari tengono fermo, pel momento non avremo gran che da temere, — rispose l’indian-agent. — Gli altri passi del Laramie sono impraticabili ai cavalli ed il pelle-rossa senza mustano non si mette sul sentiero della guerra.

Badate piuttosto agli orsi grigi. Se ne devono trovare fra queste gole. —

Erano ripartiti di buon galoppo, quantunque i canon che si succedevano fossero orribilmente selvaggi.

Enormi rocce, incassate fra fitti cespugli, coprivano il fondo dei passaggi, fiancheggiate da una moltitudine di massi caduti certamente durante lo sgelo, dalle alte vette della grande catena.

Grossi torrenti d’acqua sboccavano, di quando in quando, irati, con un fragore assordante, formando centinaia e centinaia di cascatelle.

I mustani, aizzati dai loro padroni, divoravano la via, non badando a tutti quegli ostacoli che altri cavalli avrebbero difficilmente superati, specialmente di notte, poichè l’alba non accennava ancora a sorgere.

John, che guidava la corsa e che si sentiva stringere dalla piccola indiana, qualche volta si frenava per ascoltare ed anche per dare uno sguardo verso i canon che aveva attraversati.

Pensava sempre, con una estrema angoscia, al colonnello ed ai suoi volontari. Guai se gli Sioux fossero riusciti a forzare la gola del Funerale e distruggere l’accampamento! I tre fuggiaschi non avrebbero [p. 39 modifica]tardato ad avere alle calcagna centinaia e centinaia di guerrieri, più assetati di sangue dei giaguari delle praterie.

Pareva però che tutto andasse ancora bene sulla montagna, poichè, di quando in quando, le detonazioni dei rifles giungevano. Se la polvere urlava voleva dire che il campo non era stato preso e che i volontarî non erano stati massacrati.

Per quattro ore continue i mustani, i quali possedevano dei garretti d’acciaio ed una resistenza incredibile, continuarono a galoppare attraverso ai canon che si succedevano senza interruzione e sempre più orribili, poi verso l’alba le pendenze cominciarono a raddolcirsi e le grandi macchie di pini, di noci neri, di cedri, di pinocchi giganteschi a diventare più rade.

La prateria non era che a poche miglia dai fuggiaschi, tutta verdeggiante, tutta splendida, colle sue miriadi di fiori profumati.

Per la quarta volta John aveva trattenuto il suo gigantesco mustano e si era messo in ascolto.

— Più nulla, — disse. — La battaglia è finita lassù.

— Vinta dai nostri o dagli Sioux? — chiese Harry.

L’indian-agent si volse e guardò in alto. Tutte le vette della catena del Laramie erano coperte da una foltissima nebbia, la quale si abbassava rapidamente verso i canon inferiori, avvolgendo le grandi boscaglie.

— Non so che cosa darei per essere, per un solo istante, lassù, — disse. — Chi avrà vinto? Auguriamoci che sia stato il colonnello Devandel. —

Un sorrisetto stridente, beffardo, sfuggì, in quel momento, dalle labbra della piccola indiana.

— Che cos’hai, Minnehaha! — chiese l’indian-agent, seccato.

— Ho veduto un cane di prateria che metteva fuori il muso dalla sua tana e che mi guardava, — rispose la fanciulla.

— Che il tuo Manitù ti porti nelle praterie felici! — brontolò l’indian-agent. — Sei poco seria per essere una sioux. —

Poi, volgendosi verso i due scorridori di prateria, che tenevano gli sguardi fissi sulle nebbie, chiese:

— Andiamo, camerati?

— Se noi dobbiamo andare all’hacienda di San Felipe per ordine espresso del colonnello, non trovo alcun motivo di fermarci qui, — rispose Harry. — Non dimentichiamo che abbiamo i Chayennes alla nostra sinistra e che forse battono già la grande prateria.

— Hai ragione, amico. Ci siamo assunti un’impresa e sarà nostro onore condurla a buon fine.

Hallo!... Scendiamo nella prateria!... Succeda quel che si vuole, noi faremo del nostro meglio per salvare i figli del colonnello. —

Un altro sorriso beffardo, irritante, sfuggì in quel momento dalle labbra della piccola indiana.

[p. 40 modifica]— Corna di bisonte!... — gridò l’indian-agent, con voce minacciosa. — Che cos’hai ancora da ridere, monella?

— Ho veduto la testa di un altro cane di prateria apparire insieme ad un brutto uccello.

— Chiudi il becco, stupida, o ti scaravento nel canon.

Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasta lassù, sulla sierra, e che qualche palla sioux ti avesse spacciata. Almeno saresti morta per mano dei tuoi compatriotti.

— L’uomo bianco potrebbe ingannarsi, — rispose, con voce pacata, l’indiana.

— Che cosa vorresti dire? — chiese John, sorpreso dall’audacia di quella fanciulla.

— Che io non ti ho ancora detto di essere una sioux.

— Che cosa m’importa? Per me sei una pelle-rossa e mi basta. —

Minnehaha digrignò i denti come una giovane pantera ed i suoi occhietti nerissimi parvero incendiarsi.

Harry, che l’aveva scorta, scoppio in una risata.

— Guardati, John, — disse. — Tu porti dietro di te una vipera. È maligna e cattiva, la piccina!...

— Ma siccome io non sono nè suo padre, nè suo fratello, nè un pelle-rossa, — rispose il gigante — se mi darà qualche noia l’abbandonerò nella prateria a contendere le sue magre gambe alle coyotes od ai lupi grigi.

— Sono una fanciulla, — disse Minnehaha. — Non ho mai udito raccontare che i visi-pallidi siano crudeli contro le persone che non sanno combattere.

— Sono forse i tuoi che risparmiano i nostri piccini? Morte e dannazione!... I tuoi sono dei volgari banditi e farebbero bene a non chiamarsi guerrieri.

Bah!... Non perdiamo il nostro tempo a discutere con questa monella della montagna, che io avrei lasciata volentieri al colonnello, e badiamo ai nostri mustani.

Un’ora ancora e forse meno e noi calpesteremo le grasse erbe della prateria.

Udite più nulla, voi?

— Più nulla, — risposero i due scorridori.

— Buon segno: i nostri avranno ricacciato nella gola quei dannati vermi.

Aprite gli occhi, non perdete di vista nè il rifle, nè le pistole, e diamo un addio alla montagna.

Vedremo se la prateria sarà meno pericolosa. —

Un’ora dopo, nel momento in cui il sole sorgeva maestoso sull’orizzonte e la grande catena si copriva di vapori, i tre cavalieri e la piccina, superati gli ultimi canon, scendevano nella sconfinata prateria.