Tay-See/L'ufficiale

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L'ufficiale

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Tay-See

L'UFFICIALE


In una tiepida giornata di febbraio del 1861, una gran barca a cinquanta remi carica di soldati cocincinesi, navigava verso l'alto corso del Dong-Giang, magnifico fiume della bassa Cocincina che scaricasi nel Tan-binch-giang o fiume di Saigon. Era una di quelle galee che gli indigeni chiamano balon, lunga oltre quaranta metri, scavata nel tronco di un gigantesco albero del tek, pesante, bassa al centro e stranamente rialzata a prua e a poppa, sulle cui estremità sventolavano le gialle bandiere nazionali e agitavansi enormi ciuffi di penne e grandi foglie d'arecche. Nel centro ergevasi una chirola, cupola di forma graziosa quanto bizzarra, sostenuta da belle colonnine ornate a festoni di seta, sormontata da comignoletti e da grandi ombrelli scintillanti d'oro e dappertutto lungo i bordi, spiccavano intarsi bellissimi, rappresentanti gli dei della religione cocincinese, pitture, fregi di madreperla e di scagliette di tartaruga con effetto incantevole.

Cinquanta uomini dai volti schiacciati, piatti, dai zigomi saglienti, gli occhi obliqui a mo' dei cinesi e la tinta terrea od olivastra, coperti di un semplice con don o pezzo di tela annodato ai fianchi e armati di catane giapponesi dalla larga lama, arrancavano con una specie di furore alle corte pagaie, regolando le battute coll'alzarsi della bacchetta dell'ufficiale di prua che comandava la manovra.

Una sessantina di soldati, ben stipati, stavano a poppa, con giustacuori di raso giallo sovrapposti a ricche casacche di seta rossa, calzoni chiari legati a mezza gamba, i piedi scalzi e cappelli di bambù o di dang piumati. Alcuni di essi erano feriti e sdraiati si medicavano senza lamentarsi, altri invece, colle facce annerite dalla polvere dei cannoni, masticavano tranquillamente il trau arrossandosi le labbra e sputando saliva sanguigna, appoggiati indolentemente ai loro moschettoni a pietra della fabbrica di S. Étienne. Tutti però avevano i volti cupi, tutti le divise e le armi insanguinate, e quando qualcuno apriva bocca a una parola, era una bestemmia a Buddha o a Ba-chua-ngoc, o una maledizione contro gli europei, accompagnata da un rotear torvo torvo di occhi e da un gesto di suprema minaccia.

Al di sotto della chirola, fra i cuscini e le belle stuoie dipinte di foglie di banani, se ne stavano stesi i due capi della imbarcazione. Uno di questi, coi distintivi di lanh-binch o di generale comandante le truppe di una provincia, era un uomo di circa trent'anni o poco più, di statura alta, spalle larghe, faccia feroce, ombreggiata sotto il mento da una nera e scarsa barba, e le cui tempie incavate, la larga bocca dalle labbra sottili, il naso corto, depresso, allargato, gli occhi obliqui, poco aperti, la tinta giallo-bruna, le braccia lunghe e le gambe invece corte e curve in dentro, formavano il vero tipo cocincinese. Vestiva con una gran casacca della più pregiata seta, ricca di ricami d'oro e d'argento scendente fino alle scarpe a punta rialzata, un gran turbante di garza avvolgeva i capelli raccolti in chignon, e portava alla cintola una gran catana lavorata nel Giappone a impugnatura d'oro cesellato e tinta di sangue. Quest'uomo dalla faccia cupa, aggrondata, si chiamava Tay-Shung. Era un montanaro del settentrione, salito in gran rinomanza ed a un sì elevato grado per la sua rara audacia e ferocia che gli avea valso il nome di terribile. Generale delle truppe di Bien-hoa, ritornava a questo villaggio a far nuove leve di guerrieri, dopo di aver pugnato da leone e di aver perduto tutti gli altri nella difesa di Saigon, caduta in mano delle truppe franco-spagnole tre giorni prima, il 25 febbraio.

L'altro accoccolato ai suoi piedi, era il suo pho-lanh-binch o luogotenente, un montanaro come lui ed egualmente coraggioso, che aveva perduto tutta la sua schiera sotto i forti di Tuon-keou e che lo aveva raggiunto alla foce del Dong-Giang, dopo di esser passato con mille astuzie nuotando come un pesce, sott'acqua, fra le navi del contrammiraglio Page.

Tutti e due parevano assorti nei loro pensieri, guardando sbadatamente le incantate rive del fiume sul quale si curvavano e si abbracciavano qui e là nei punti più stretti alberi di sappau dal prezioso legno di tintura non inferiore a quello di campeggio, grandi calaminte dal dolce profumo, ombrosi thai truri-man-cut o mangostani e arecche dalle gigantesche foglie lunghe cinque metri e larghe la metà, mescolati a grandi mia voi o canne d'elefante da zucchero e a serpeggianti cay-ho-thieu dal forte pepe.

Parevano quasi due statue o meglio due idoli dalle sfolgoranti vesti. Solo di tratto in tratto le loro mani, più per abitudine che per volontà, allungavansi su piccoli sacchetti di broccatello, pieni di foglie di betel accartocciate e di noci di areca grattugiate che formavano con un po' di calce viva il trau, sostanza fortemente aromatizzata, che rovina la bocca e annerisce i denti, lasciando colar abbondante saliva rossa. Quel silenzio durava da un pezzo, quando Tay-Shung lo ruppe improvvisamente:

— A che pensi tu, mio prode Ca Bong? — chiese egli volgendosi al luogotenente, dopo di aver sputacchiato sulle aiuole lasciando macchie da credere egli si fosse strappato un dente.

— E tu a che pensi, mio terribile Tay-Shung? — chiese invece l'altro. — A che vuoi che pensi se non alla guerra! Ah! Che il cattivo genio e che il buon Buddha fiacchino quei barbari dell'occidente!1 Che vogliono nella nostra Gia-Dinh (Bassa Cocincina), quei franco-spagnoli? Sono sì miserabili questi popoli dell'occidente, da non possedere terre sufficienti da sfamarsi, da correre a rubare quelle degli asiatici?

— Non lo credo, Ca Bong — rispose seriamente anzi cupamente il terribile Tay-Shung. — Hanno la smania di arraffar terre a quelli più deboli di loro, e i loro occhi si sono fissati su queste fertili campagne del Già Ding, troppo fertili per nostra disgrazia, e che ho la tema, che purtroppo noi perderemo. Accampano pretese di riparazioni da lunga pezza, quei volti scialbi, per aver noi spacciato in sei o sette anni la miseria di due o tre uomini della loro razza. E che? Lasceremo noi adunque, i forti figli del Dong-Giang e del Tanbinchgiang, spadroneggiare i loro compatrioti a rovesciar le religioni dei nostri antenati? Chi di noi va a insegnar nei loro paesi la religione di Buddha, di Ba-chua-ngoc, di Bahao-ling o di Cò-hahn? Lascino adunque che tutte le acque seguine il naturale loro corso. Lascino che il cay me2 cresca solo e rigoglioso senza che il cay-ho-thieu3 serpeggiante lo soffochi.

— E sarebbe forse la causa di questa invasione, la morte di qualche missionario? Non lo aveva sempre detto io, che quelle tonache nere ci porterebbero sfortuna? Chi li chiamò nelle nostre terre a insegnar le loro frottole? Bisognerebbe, Tay-Shung, fare una gran raccolta di teste e piantarle alle palizzate o sulle antenne delle nostre città per far cessare quest'invasione di rettili. E come successe la cosa?

— Le sono robe vecchie, Ca Bong. Un mandarino di Saigon, che la sa più lunga di noi due assieme e di tutti quelli di Bien-hoa presi in mazzo, mi raccontò che la faccenda risale al 1851, quando il nostro re, Tu-Duc, fece giustiziare una tigre vecchia, un missionario infine, che mi pare si chiamasse Schoeffer di Lorena. Tu sai, che il nostro Tu-Duc, che Buddha lo conservi e che Bachuangoc gli mandi fortuna, peccava come suo avolo, e giù una nuova testa di prete Bonard nel 1852, un capo dorato dal vescovo Diaz nel 1857, quello del prete Melchior nel 1858, e per questi ninnoli, eccoci addosso francesi e spagnoli che giurano di farci danzar a suon di cannone.

— Ma noi manderemo al loro campo tutte le teste dei preti che cadranno sotto il taglio delle nostre catane e sì, che la mia, sarebbe capace di fendere un thraithouc4 in un colpo solo.

— E loro manderanno le teste dei nostri ansai (preti) al nostro campo e faran massacri simili a quello che fecero dopo l'assalto di Saigon.

— E allora? — chiese Ca Bong con uno sguardo torvo e tirando le parole coi denti.

— Allora bisogna difendersi, e ben difendersi, e far scorrere fiumi di sangue entro i quali possano guazzare i nostri soldati, monti di cadaveri da sfamare tutte le tigri dei dintorni e migliaia di teste da ornare i nostri balon — disse Tay-Shung il quale man mano che parlava inferociva. — E quando le forze ci verrebbero meno, quando ogni speranza di spuntarla fosse perduta, dar fuoco alle foreste e alle piantagioni; che il fumo soffochi i maledetti e il fuoco gli arrostisca; bruciare e borghi e città che non possano trovare rifugio, avvelenare le acque che crepino come belve e noi ritirarci sui monti. Di' a loro, Ca Bong, che vengano allora ad assalirci sui nostri monti e nelle foreste dell'alto corso del Dong-Giang, se basta a loro il cuore.

— Si rovinerebbe il paese, Tay-Shung.

— Che importa, quando rovinando il paese si rovinerebbero egualmente gli invasori?

— E non si potrebbe cacciarli colle nostre forze? A Saigon, hanno dovuto battere in breccia due giorni prima di aprirsi un varco per dare l'assalto, e io, con questi occhi, ne ho veduto centinaia e centinaia di quei bravacci barellare sulle fortificazioni e capitombolare ne' fossati. Devono ben rammentarsi dei porti di Kiloa se non di quelli di Tuon-Keou.

— Sì, ed ecco in grazia del nostro valore che siamo fuggiaschi sul Dong-Giang — disse ironicamente Tay-Shung. — Credilo, Ca Bong, noi siamo troppo vecchi per misurarci coi barbari dell'occidente che posseggono giovani armi. Pur io, che avevo il cuor grosso d'odio e che credo essere tanto forte da disfare con queste dieci dita anco i comandamenti di Buddha, venti volte precipitai dai bastioni l'assalitore che mi si presentò dinanzi e armeggiai col colonnello Gutierres e i suoi spagnoli che mostrarono più volte i talloni, ma ciò non ostante, dovetti piegare il capo e fuggirmene a scavezzacollo.

— E ora che Saigon e dintorni sono perduti che si conta di fare?

— E chi lo sa, Ca Bong. Le nostre truppe battute coi mandarini comandanti hanno piegato verso Mi-tho e pare che vogliano difendere quella città. Per parte mia, farò il possibile perché mi baleni ancora lo spettacolo di una strage e possa tingere fino alle guardie la lama della mia catana. Bien-hoa sarà fortificato, e ti giuro, e Buddha sia testimone, che finché la difenderà Tay-Shung, si spunteranno le armi dei maledetti. Si faranno nuove leve di guerrieri, si fonderanno cannoni e si fabbricheranno armi, e torneremo al sud a vincerla o lasciarvi la nostra vita. Sarà l'uragano che passa!

— E Tay-See?... — chiese sorridendo Ca Bong.

Tay-Shung si arrestò e il baleno feroce de' suoi sguardi si spense d'un tratto.

— Lasceresti adunque Tay-See, la bella Rosa del Dong-Giang? — proseguì Ca Bong. — Oh! Non lo crederò che coi dovuti riguardi, Tay-Shung.

— Sì, quella donna, quell'essere soprannaturale, quella divina fanciulla, mi affascina, Ca Bong, e non sarei tanto forte di lasciarla sola una seconda volta. Hai ragione, amico mio, non parlo che per istinto e senza riflettere. Oh! Mia adorata Tay-See — proseguì il guerriero con slancio appassionato e con un tono di voce sì dolce che non si avrebbe mai creduto di udire da lui. — Non ti lascerò sola, in balìa forse del nemico. No, Ca Bong, renderò Bien-hoa inespugnabile, ma non muoverò un passo verso Saigon. L'idea di perderla, mi accaglia il sangue nelle vene. E perché vuoi, che nel momento che l'inimico turbinava a noi dintorno, mi cacciassi come tigre fra i morti e mi stringessi ai fianchi di un ufficiale a cacciargli venti pollici di lama nel costato, se non per strappargli una gran collana che conto regalare a Tay-See! La vederò sorridere quella fanciulla, Ca Bong; vedrò forse quelle labbra sempre mute come una tomba aprirsi e mostrar le perle de' suoi denti; e udrò, forse, il dolce nome di anh5 (mio fratello maggiore) invece di quello rigido di ong (signore). Sento che mi gira la testa, Ca Bong, sento che mi turbina più rapido il sangue nelle vene, al solo pensare a queste gioie, tanto io l'amo. Oh! Sublime Tay-See!... Sublime Rosa del Dong-Giang!...

— Zitto! — esclamò d'improvviso Ca Bong afferrando il moschetto con moto istintivo.

— Oh! Oh! Che succede?

Erasi udito un'archibugiata un mezzo miglio più innanzi, verso l'alto corso del fiume, poi due, tre, e infine una scarica generale. Tay-Shung colla catana in mano e il suo luogotenente, in un baleno uscirono dalla chirola. I soldati si erano levati come un sol uomo e stavano armando i loro moschettoni, credendo che una mano di franco-spagnoli si nascondesse nei canneti delle rive, mentre i barcaiuoli, rallentando le battute, ponevano fra i denti le sciabole d'arrembaggio.

— Che! — gridò Tay-Shung. — Che succede?

— Non lo so, Tay-Shung — rispose l'ufficiale. — Hanno tirato delle archibugiate, a un mezzo miglio più in sù, ma chi e contro chi? Ecco l'imbroglio.

— Che qualche fumante cannoniera ci preceda? Il cuore mi si fa grosso come quello di una tigre, e non darei una pipata di ciandù (oppio) della pelle del suo equipaggio.

— Lo credo, Tay-Shung, ma si avrebbe udito qualche cannonata. Quei malaugurati mostri, non marciano che con musica e forte musica alla testa. Ora chi ha udito la gran tromba?

— Nessuno — confermò per tutti un mastro battelliere.

— Muovete le vostre pagaie, voi, e lasciate che il balon fili verso l'alto corso — comandò Tay-Shung. — E voi figli miei, fuori le catane e aprite gli occhi. Questa sera, bisogna andare a Bien-hoa a mangiare la nuoc nam (salsa piccante) e sorseggiare una tazza di ruon-manch (liquore di riso fermentato), si dovesse passare sul corpo di una cannoniera.

I cinquanta remi, ad un accenno dell'ufficiale di prua, si tuffarono con ammirabile accordo nelle acque e il balon ripigliò la rapida corsa tenendosi nel mezzo del fiume. I soldati, tratte le catane, diressero gli archibugi verso le due rive, alle cui foreste erano succedute risaie vastissime di kang dal granello piccino e aromatico e di hu'n dal grano grosso e molto glutinoso.

Arrancavano da cinque minuti, quando Ca Bong, che si teneva ritto a prua, segnalò un corpo umano che galleggiava alla superficie del fiume.

— Guarda a dritta! — gridò egli. — Abbiamo un annegato, Tay-Shung.

— Oh! Oh! — borbottò il lanh-binch che andava arrotolando fra le dita una sigaretta conica. — Che sia qualcuno dei nostri, oppure uno di quei maledetti bianchi? Ehi! Thuan, governa dritto all'annegato e fa' in modo che l'abbordiamo.

— Sta bene, Tay-Shung — rispose il mastro battelliere. — Mollate a babordo voi, e arrancate a tribordo.

L'annegato seguiva il pelo dell'acqua verso la riva sinistra, aggrappato ancora a un grosso ramo di sappau che lo teneva colla testa fuori dalla corrente. Il balon in pochi istanti lo raggiunse, e Ca Bong afferrandolo pel collare del vestito, lo trasse a bordo deponendolo su di un mucchio di stuoie.

Era un giovanotto di venticinque o ventisei anni su per giù, di statura superiore alla media e di vigorose forme, con un volto ammirabile, maschio, fiero, ombreggiato da lunghi baffi, con capelli nerissimi a riflessi metallici e dalla carnagione bruna vellutata. Non ci volle fatica a riconoscerlo per un bianco dai regolari tratti della faccia, tanto più che indossava la divisa d'ufficiale spagnolo.

Tay-Shung, a quella vista, si fe' cupo in volto e un lampo di ferocia guizzò negli obliqui occhi.

— È morto? — chiese egli brevemente.

Ca-bong appoggiò la mano sul cuore dell'annegato e accostò l'orecchio alla bocca.

— Tay-Shung — rispose egli dopo qualche istante. — Il cuore batte e l'ho udito respirare.

— Ributtalo nel fiume, Ca Bong, e che i pesci del Dong-Giang facciano festa.

Ca-Bong l'aveva già risollevato e stava per ubbidire quando arrestossi. — Tay-Shung — diss'egli. — Se lo portassimo vivo a Bien-hoa, a farlo combattere con la tigre? Io credo che tornare con un prigioniero come questo e divertire i compatrioti, sarebbe miglior cosa che gettarlo ai cabong6 del fiume, cosa ne dici?

— Hai ragione, amico mio. La nostra disfatta riuscirà meno dolorosa, e chi più di te, e io fra i primi, non potrà capire dentro la pelle d'allegrezza quando la gran (tigre) berrà il sangue del maledetto. Ohe! Dategli mano voi, a farlo rinvenire. Vi sarà doppia razione di ruon-manch e un doppio luòng7 di riso, al villaggio.

Quattro soldati svestirono il bianco e Ca Bong si mise a strofinargli le membra intirizzite delicatamente dapprima poi energicamente, indi aprendogli i denti colle punta della catana introdusse alcune gocce di ruon-manch. Un tremito scosse le membra dell'annegato, i colori gli tornarono, emise un lungo sospiro e finì coll'aprire gli occhi. — È rinvenuto il giovanotto, si vede che è robusto — disse ghignando Ca Bong. — Bevi un altro sorso, amico mio.

Una sorsata dello spiritoso liquore fece tornare completamente in sé l'ufficiale che si scosse tutto, tornò ad aprire le grevi palpebre e fissò il terreo volto del luogotenente.

Il suo primo moto fu quello di portare la mano al fianco come cercasse la sua sciabola.

— Cheto, bell'uomo — disse Ca Bong ridendo. — Se tu vuoi fare qualche cosa che ci dispiaccia guardati dalle nostre catane. Ti presento il mio generale, il terribile Tay-Shung!

Lo spagnolo a quel nome trasalì ma non disse verbo, e ficcò gli occhi ben in volto a Tay-Shung che fumava tranquillamente una sigaretta di thuac. — Tay-Shung! — esclamò egli dopo qualche minuto d'ostinata fissazione.

— Che il mio nome sia strano? — chiese il generale.

Poi si strinse nelle spalle.

— Sei tu uno di quelli che ci diedero le botte a Kiloa? Avrei l'onore in tal caso di cambiarle a Bien-hoa, ma con zanne di tigre invece di palle di piombo.

Il prigioniero tornò a trasalire e si fece leggermente pallido.

— Io credo che tu scioglierai la lingua, non e vero, giovanotto mio? — proseguì beffardamente Tay-Shung. — Si potrebbe, in caso contrario, farti fare un nuovo tuffo nel Dong-Giang, e ti assicuro che non arriveresti al mare che colle pure ossa, se i cabong sono di umore di lasciarti anche queste. Saresti per caso uno spagnolo?

— No — rispose l'altro in francese.

— Ah! Un francese nella pelle di uno spagnolo!

— E un francese che potrebbe giurarti di aver visto i tuoi talloni — aggiunse il bianco.

Una nube oscurò lo sguardo di Tay-Shung. Portò la mano all'impugnatura della catana ma non la trasse dal fodero.

— Il giovanotto si vede che ha dello spirito — disse con maggior ironia. — Vedremo se avrà tanto spirito quando la tigre gli squarcierà il ventre e ne farà uscire le viscere. Ehi! Ca Bong, ti raccomando il caro giovanotto!...

Tay-Shung tornò a sdraiarsi fra i cuscini sotto la chirola a terminare flemmaticamente il suo sigaretto; Ca Bong si collocò ai fianchi del prigioniero e il balon continuò a salire il fiume, rapido come una freccia, passando come brillante meteora sotto le vòlte di verzura che formavano gli alberi intreccianti i loro rami dopo passate le risaie.

Man mano che procedevano, le rive della fiumana cominciavano a popolarsi.

Qua e là apparivano capannucce di bambù col tetto coperto di foglie di rapa, i cui abitanti uscivano strepitando coi gong o coi tam tam acclamando i soldati; poi dei piccoli templi (dinh) i cui onsoi dalle vesti bianche, nere o azzurre inviavano le benedizioni di Buddha e diroccate fortezze e terrapieni guardati da alcuni guerrieri. Verso il mezzodì, ad una svolta del fiume, apparve la cittadella di Bien-hoa coi suoi templi irti di comignoli scintillanti d'oro, le sue case e casette di mattoni seccati al sole o di terra o di stoppie sostenute da colonne dipinte a vivi colori.

Tay-Shung alla vista della cittadella sulle cui case sventolavano le bandiere nazionali respirò e fe' battere il gong, il cui suono attirò, in meno che non si dica, tutta la popolazione sulla riva.

— Coraggio figliuoli — diss'egli ai guerrieri. — Siamo uomini!

Il balon approdò. Vecchi, adulti, fanciulli e donne si affollavano alla riva, tutti cercando ansiosamente fra i superstiti i padri, i mariti, i fratelli, i figli.

Tay-Shung, con un colpo d'occhio, percorse tutta quella gente e mandò un sospiro.

— Sempre la stessa, — mormorò egli, — sempre la stessa!

Saltò pel primo sul molo, accolto con un frenetico battimani e da un singhiozzare straziante delle donne che invano cercavano i loro cari fra i sessanta guerrieri, singhiozzi che però cessarono tosto quando il generale informò con poche parole i presenti, come gran parte delle sue truppe fossero in fuga verso Mi-tho. Masticò il trau che i notabili della cittadella gli presentarono com'è costume, e sbarazzatosi di loro, seguito dal luogotenente si diresse rapido verso la sua abitazione, dopo di aver prima raccomandato il prigioniero al tùan fu, governatore della cittadella.

In dieci minuti giunse dinanzi a una bella casa di mattoni, a tetto arcuato, tutta a colonnati e circondata da verande bellissime e da ombrosi alberi di arecche.

— Tay-See! Tay-See! — esclamò egli.

La porta si aprì e comparve sulla soglia una seducente creatura vestita con cinque o sei camicie di seta sovrapposte le une alle altre, e a diverse lunghezze e a smaglianti colori, ben attillate che lasciavano indovinare le ammirabili membra, tutta ornata di scintillanti collane e bellissime perle. Era Tay-See.


Note

  1. Così vengono chiamati gli europei.
  2. Cay me è il sesamo nero.
  3. Il pepe serpeggiante (piper ràgnan).
  4. Un ananas.
  5. Il marito nella Cocincina da alla moglie del tu, e questa a lui del signore, oppure lo chiama fratello maggiore se le relazioni sono cordialissime.
  6. pesci dei fiumi cocincinesi di tinta brunastra a screziature verdognole.
  7. il luong equivale a 40 libbre ed è la misura di riso che ogni soldato riceve al mese.