Trattatelli estetici/Parte prima/I. L'unità

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Parte prima - I. L'unità.

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I.

L’UNITA’.

Quando si vuol dire bellissima ad una composizione si dice comunemente la è di getto. Una tal frase, come l’altre tutte che sono diventate proprietà comune, e di cui il significato, tuttoché astruso, vuolsi afferrare subitamente da chicchessia, merita di essere esaminata.

Il getto, chi ben considera, non è sempre il più artifizioso de’ lavori, e non è quello certamente in cui spicchi nel suo maggior lume l’individuale abilità dell’artista. Perchè dunque pigliare a prestito dall’arti una frase che nella sua applicazione potrebbe sembrare inesatta? O meglio, da qual lato si dee prenderla, a trovarvi quella verità e convenienza che la rese accettabile universalmente? Nel getto egli è da considerare la unità nel suo più alto ed esteso [p. 290 modifica]significato. Unità nel concetto e nell’esecuzione; ossia corrispondenza somma congiunta a somma velocità. Non bisogna confondere la frase di cui parliamo con l’altra che dice: è cosa tutta d’un getto. In questa seconda la significazione è limi tata e riguarda un altro ordine d’idee. I trattatisti, che spendono molte parole in proposito di certe loro arbitrarie unità, farebbero, a parer mio, opera molto bella dimenticandone alcune per meglio dichiarare la vera. Quel concepimento di un’opera che non te la dà, come a dire, tutta d’un pezzo, è da rigettarsi come imperfetto. Tanto è ciò vero, che uno studio grandissimo si pone a’ trapassi con la mira di nascondere il partire che fa l’autore dal proprio soggetto per indi tornarvi; appunto come, ove il getto si faccia in parecchi stampi, s’invoca il soccorso della lima a tor via quel più ch’è possibile delle commessure. Di qui la necessità del grande scrittore di vivere sempre co’ fantasmi, se cosi vogliamo chiamarli, della propria mente, e di conversare continuamente con essi, affinchè lo scostarsene non tolga al suo lavoro quella bella apparenza di continuità, senza la quale nè manco i lettori saranno allettati a scorrerlo, come suol dirsi, tutto d’un fiato. Che attenzione devo io prestare ad un fatto, di qual importanza deve esso sembrarmi, quando chi lo racconta s’interrompe ad ogni poco per dire una galanteria alla signora che gli sta presso, per badare se il lampadario [p. 291 modifica]che ha sovra la testa si regga a dovere, e simili altre distrazioni che ben palesano la poca parte che l’animo prende alla narrazione? Non altrimenti accade a chi legge un libro di cui le prime dieci pagine appariscono visibilmente scritte d’inverno al tepor del camino, le dieci seconde tra gli alberi e le fontane della villa. Quante volte mi succede di dire a me stesso, mentre leggo qui l’autore depose la penna e andò a fare una passeggiata; qui fu interrotto dalla visita di un seccatore; qui lo prese la noia e si addormento. E allora, che voglia posso sentirmi io stesso di continuare?

Esaminando la cosa più seriamente, la vastità dell’ingegno in che consiste, se non nel saper comprendere d’un guardo solo un numero maggiore di oggetti, di quello sogliano gli altri nomini a cui l’ingegno non è più che mezzano? Pochi sono quelli, cui la natura fosse tanto matrigna da non conceder loro che veder sappiano successivamente quanto altri potè vedere di lancio. La gagliardia delle impressioni, che sono atti a ricevere certi animi sovranamente squisiti, nasce da ciò, che in essi riflettonsi simultaneamente compendiate le parti tutte di un dato oggetto, e vi cagionano quella forte e complessiva visione che li rapisce nell’entusiasmo; laddove gli altri non sono commossi che un po’ alla volta, quando da tale, quando da tal altra parte del medesimo oggetto, sicchè al sorvenire del[p. 292 modifica]la seconda impressione la prima è un po’ raffreddata, e sì l’una che l’altra non possono mai esser gustate nella loro generalità, ossia nelle relazioni più intime che vi hanno fra loro. Perchè quando l’ammirazione ha tocco l’ultimo grado vengono a mancar le parole? Appunto perchè, a voler esprimere intera quell’ammirazione, si richiederebbero parole che comprendessero un significato più generale di quello comprendono d’ordinario; e quindi egli è forza limitarsi a certe frasi generali di bello, perfetto, maraviglioso, che lasciano all’anima indovinare ciò che la lingua non è capace di esprimere. La subitaneità adunque e la copia concorrono a formare l’unità. Potrà sembrare a taluno che quanto si è detto abbia riguardo piuttosto agli uditori o spettatori di un’opera, che agli autori; credo però che da questo tale si vorrà avvertire che il primo spettatore di qualsiasi opera egli è l’autore, al quale è conceduto vederla nella propria mente, prima che altri sulla carta, o nella tela, o dove che sia. Tal altro potrà aurora dire: dovremo dettare, tutto d’un fiato, com’è desiderabile che leggano gli altri il nostro libro quando lo avranno tra mano? Questa interrogazione! non può farsi che da scherzo, e mostrando di frantendere il significato delle parole. Soffiatevi il naso, tossite, levatevi a prender|aria, tra periodo e periodo, tra frase e frase, se cosi vi piace, ma non ne date indizio [p. 293 modifica]ai lettori, altrimenti vi so dir io, che tornati al lavoro l’uditore vi sarà scappato dinnanzi.

Per estendere alquanto il discorso, e dar ad esso quella importanza che da sè non avrebbe riferendosi ai soli lavori d’arte, potrebbesi osservare che questa stessa unità vuol esser studiata e possibilmente osservata eziandio nel costume di ogni uomo. In questo caso l’uso amerebbe che la si chiamasse piuttosto coerenza. Questa coerenza rende l’uomo tetragono a’ colpi della ventura sia favorevole sia nemica. E qui ancora richiedesi una certa velocità. Bisogna per altro che c’intendiamo, affinchè non sembri che io voglia fare il panigirico dell’impetuosità e della precipitazione. So anch’io ch’egli si vuole andar lenti nell’operare; ma, e forse che questa lentezza non è richiesta anche nei lavori d’arte? Ciò non esclude la subitaneità della visione.

Tra chi conosce subito il buono e il rio di un’azione, e giovasi poi del tempo e del ragionamento a meglio accertarsene, e chi ha bisogno del tempo e del ragionamento per quella cognizione, quale credete voi sia migliore? Ne più nė meno accade all’artista, che afferrata l’idea generale, e come a dire dominante del suo lavoro, v’impiega attorno lo studio ad attuarla. Ciò che abbiamo detto di certe opere può dirsi egualmente di certe azioni: sono buone non c’è a dire; ma non sono di getto. È generoso [p. 294 modifica]il tratto di Tiburzio, ma non potete a meno di sentirvi l’esitazione per la quale passò la sua anima prima di adagiarsi in quella nobile volontà. Sofronia non dice male di chicchessia, a voler esser giusti; ma ci vedete nel suo discorso la continua propensione a farlo, e il continuo contrasto in cui è colla propria lingua. Se fa l’elogio di qualche persona, come per verità non manca di fare assai volte, voi ci trovate sempre uno staccato, un contorto in quelle sue riprese frequenti, in quella lentezza con cui pronunzia certe parole, quasi meditando le successive, che vi fa presumere l’ommissione di qualche idea interposta, o per lo meno la non sempre completa espressione delle manifestate. Bisogna pur fare qualche caso anche del tempo, il quale, da volere a non volere, è pure in qualche guisa dominatore dell’uomo; e sovente tra l’intenzione e l’atto frapponendosi Pesitazione, questa, tuttochè inattiva, ha forza di rodere le altre due, di lor natura attivissime. L’abitudine presa d’operar il bene, anzichè scemare il pregio dell’umana ragione, è farmaco efficacissimo a quella parte di naturale nequizia, ch’è propria pur troppo di tutti gli uomini. Egli è pur vero che il bello ed il buono si danno mano! Il bello delle arti è rappresentazione della bontà che deve avere la propria sede nel cuore; e quindi verissima in questo senso la sentenza di chi disse, anche negli autori aversi a [p. 295 modifica]considerare prima il cuore indi l’ingegno. Le mostruosità non fanno specie. Giustissimo per altra parte il pregio che si fa della coerenza nelle umane azioni, in quanto l’unità che si richiede nel bello è richiesta pure nel buono, e la coerenza pure delle parti produce quella frase lavoro di getto, che dall’esperienza è tratta a significare la bontà di un lavoro anche non materiale.