Una passione/III

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III. Cambiamento di scena

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III. Cambiamento di scena
II IV
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III.

cambiamento di scena.

Il paesaggio è quello che si stende al sud di Bergamo per una serie ininterrotta di campi coltivati la maggior parte a grano ed a gelsi, con verdeggiamenti nella stagione buona di erbe alte e distese dorate di ravettone in fiore, opulenti sotto il cielo morbido di Lombardia. Ma una forte nevicata in principio di febbraio, seguita da disgelo, aveva steso sulla pianura una monotona tinta grigio sporco dove i rami secchi degli alberi si confondevano coi campi, e colle strade coperte di fanghiglia, e coi ruscelli che sembravano morti fra le due rive spoglie di cespugli a guisa di labbra sdentate. Solo in fondo, verso Bergamo, brillava in cima alla avvenentissima prealpe il diadema di un cielo azzurro senza nubi, ma era molto lontano e si vedeva appena.

Le campane dei rari paesi sparsi avevano suonato tutte l’Ave Maria e nel freddo crepuscolo [p. 37 modifica] saliva insieme all’onda dei suoni, il fumo dei comignoli, aggiungendo una nuova gradazione bigia al colore del paesaggio che acquistava nell’insistenza della stessa nota una espressione di malinconia intima e profonda, eppure dolce, quale d’anima amorosa che soffrendo e aspettando spera.

Per quanto l’occhio potesse abbracciare era dovunque una quiete di giornata chiusa, di attività sospesa e riposante; nessun passaggio sulla strada; nessun rumore di attrezzi e di carri: qualche lontano abbaiar di cani e il nitrito di un cavallo dentro una stalla rammentavano debolmente la vita.

Eppure guardando bene lungo il filare dei gelsi stecchiti, sulla striscia di terra più alta e più asciutta, un’ombra passava stretta nella giacca contadinesca sotto la quale pendeva il logoro sacco del portalettere.

Sul finire della giornata umida e grigia, mentre gli altri stavano giù raccolti nel tepore delle case, il portalettere compiva il suo giro, metodico, irresponsabile, inesorabile come il destino. Nulla della sua figura scialba staccava sul fondo uniforme della campagna; sul terreno molle il suo passo non produceva alcun rumore. Egli andava, indifferente, senza fretta e senza posa, recando i palpiti di mille cuori. La via si allungava dietro a lui, i rami degli alberi [p. 38 modifica] impallidivano sempre più nella leggera nebbia serotina, sempre più confondevasi la forma e il colore delle cose, nè egli se ne accorgeva. Il movimento meccanico di mettere un piede innanzi all’altro senza indugiare, senza distrarsi mai, per anni ed anni, sulla stessa via, alle medesime ore, in condizioni invariate, sordo e cieco ai segreti che recava con sè, passivo e pure fatale, obbediente come la natura che lo circondava ad una legge invisibile: questo continuo assorbimento del suo io nel cumulo di passioni e di desideri che gli fremevano intorno gli avevano tolto le caratteristiche comuni agli altri uomini. Egli non si fermava mai a contemplare un punto nuovo dell’orizzonte, perchè nessun punto era nuovo per lui; nè affrettava o rallentava il passo, non avendo nessuna ragione di arrivare prima e non potendo in causa del servizio ritardare; nè mai gli occorreva di sostare guardandosi intorno incerto della strada, nè canticchiava o zufolava simile a colui che va a diporto, nè faceva i conti e i preventivi di chi si reca a contrattare per compere o vendite. Sorteggiato a distribuire la gioia e il dolore procedeva silenzioso, inavvertito quasi, fra le acque dormenti nel fondo dei fossati e grigie come la terra grigia, come il cielo.

L’ultima meta del suo viaggio in quel giorno era un caseggiato largo e basso, una specie di [p. 39 modifica] fattoria con un’aia davanti, un verziere a tergo e fiancheggiato da piccole fabbriche per gli usi diversi della vita di campagna. Il portalettere traversò l’aia e andò direttamente a bussare a un uscio dalle cui fessure usciva un sottil raggio di luce; ma nemmeno ebbe bisogno di bussare, perchè appena urtata l’imposta una ragazzetta che stava per uscire ad attingere acqua tese la mano alla lettera che biancheggiava sull’orlo della buia sacca.

— Una sola?

— Sì, questa sera è una sola.

— Siete stato bravo a venir fin qui per una sola lettera.

L’uomo si strinse nelle spalle senza rispondere. La ragazzetta, dato un salto indietro, buttò la lettera sopra una tavola e scappò ad attinger acqua facendo risuonare il manico della secchia.

La tavola sulla quale la lettera era caduta trovavasi nel mezzo di una cucina vasta, rallegrata da un bel fuoco di legna scoppiettante sotto il camino. Al lieve rumore una donna che stava attaccando il paiolo all’uncino si volse e mormorò:

— Ancòra!

Di là dalla cucina, attraverso un uscio aperto, una voce d’uomo chiese imperiosamente:

— Chi è? [p. 40 modifica]

— Nulla. Il portalettere.

Rispose un grugnito di là dalla cucina e la lettera rimase sulla tavola nera. Quando ritornò la servetta coll’acqua, dopo di avere deposto la secchia, si accostò adagio e toccò la lettera con un dito; poi, sillabando lentamente l’indirizzo, disse:

— È per il signor Ippolito.

— Naturalmente. Per chi dovrebbe essere?

— Gliela porto?

— Ci mancherebbe altro! Sbuccia le patate e lesta! Finirà bene anche questo nolo.

Che cosa intendesse la donna con quella parola «nolo» applicata fuor di proposito sarebbe difficile dire; ma l’espressione di malumore che l’accompagnò la corredava di sufficiente spiegazione. Era una femminuccia sui cinquanta, scialba e raggrinzita nel suo abito di lana scura, con un largo grembiule dinanzi alla moda di provincia e due manichini di lana nera lavorati a punto di calza con un festoncino di perle d’acciaio ricadente sulle mani piccole e rugose.

— Rosalba! — chiamò, di là dalla cucina, la voce imperiosa.

— Un momento. Non si può servire insieme il papa e l’imperatore.

Che il paiolo rappresentasse il papa o che rappresentasse l’imperatore, la femminuccia vi prestava tutta la sua attenzione; e non era certamente di quelle che possono prodigarsi. [p. 41 modifica]

— Dov’è Remo?

— Non lo so.

— E quell’altro di sopra che cosa fa?

— Aspetta la sua zuppa, ma l’aspetterà un pezzo. Miracoli non ne fa nessuno.

La servetta che si divertiva intanto a fabbricare una chiocciola colla buccia delle patate ricevette un pizzicotto nell’orecchia e gettò un grido.

Dall’altra parte si tornò a chiedere:

— Che cosa c’è?

— Nulla. Un pizzicotto meritato.

Il dialogo continuava a sbalzi attraverso l’uscio aperto, accompagnato dal crepitare della fiamma sotto il paiolo, quando dalla porta sul cortile entrò un ometto accuratamente chiuso in un pastrano color marrone. Entrò fregandosi le mani, sorridendo e guardandosi in giro con due occhi buoni e lucenti ai quali le sopracciglia singolarmente rialzate conferivano una espressione di stupore perenne.

— Non pretenderete anche voi che il desinare sia pronto, dal momento che sono sola a pensare a tutto e che mi tocca servire anche il signorino, di sopra, con due braccia sole...

— Ma... io... io non ho ancora aperto bocca. Io non pretendo nulla, Rosalba. Che bel fuoco! Come si sta bene qui!

— Già... colle mani in mano a godersi il lavoro degli altri. [p. 42 modifica]

Il nuovo arrivato chinò la testa come un cane sotto lo scudiscio del padrone e passando dietro la servetta la accarezzò paternamente sui capelli.

— Non le fate perder tempo! — garrì Rosalba. — Siete voi che mi guastate tutte le serve.

A questa nuova accusa le sopracciglia ad arco acuto invasero tutta la fronte, ma il loro proprietario non disse nulla. Anzi, avendo proprio in quel punto teso timidamente il collo per guardare la lettera che stava nel mezzo della tavola Rosalba gli intimò così bruscamente di badare a’ fatti suoi che egli si affrettò a sgattaiolare per l’uscio aperto nell’altra stanza, la quale era un tinello molto modesto illuminato da una lampada a petrolio, con qualche sedia di cuoio, una libreria e un attaccapanni. La mensa, già pronta, era coperta solo per metà da una piccola tovaglia sulla quale stavano appoggiati tre coperti con posate d’ottone (quelle d’argento si serbavano per le occasioni) e piatti di maiolica ordinaria e tre tovaglioli prudentemente rinchiusi in tre anelli ricamati a punto in croce; un anello rosso, uno giallo, uno bleu.

Il proprietario dell’anello rosso lo aveva già sciolto. Seduto a capo tavola nell’unica sedia a bracciuoli, più alto di tutti gli altri, dominatore, colla persona aitante, la testa poderosa, il volto irsuto, faceva pensare ad una di quelle [p. 43 modifica] vecchie statue ornamentali rappresentanti un Fiume. Contribuiva all’illusione la posa solenne di deità pagana, col pugno destro appoggiato alla mensa e il braccio rilevato, proprio a guisa di ponte sotto il quale scorresse la fiumana dei secoli. Guardò d’alto in basso l’ometto dal pastrano color marrone mentre stava levandoselo dalle spalle per appenderlo, non senza qualche sforzo di equilibrio, sulla punta dei piedi: dopo di che, tirando indietro col minor rumore possibile la sedia accanto al colosso, si disponeva a togliere dall’anello giallo il proprio tovagliolo.

— Che luna!

— Luna? — ripetè l’ometto guardando il soffitto.

— Dico a te. Non hai ancora aperto bocca. È una vita piacevolissima; piove tutti i giorni, quel citrullo è sempre a letto, e tu che te la spassi in giro come un signore, tornando a casa non hai nulla da raccontare.

— Se sapessi, Romolo, che ti può far piacere la descrizione della mia giornata, ti direi che col nuovo semestre avrò sette bambini di più, che nella scuola non ci staranno tutti e che oggi sono andato a Bergamo per domandare al signor ispettore che mi conceda un altro locale.

— Tutti così questi maestri. S’immaginano che il mondo stia ritto sulle loro scuole e che [p. 44 modifica] non si abbia altro a fare che pulire il naso ai loro marmocchi. Per quel che rendono!

— Si fa quel che si può.

— Ma giammai quello che si deve. Io mi domando che cosa fruttarono i tuoi quarant’anni d’insegnamento. Quale uomo, dico, quale uomo, è uscito dalla tua scuola? A calcolare trenta allievi all’anno, farebbero mille e duecento; ma colle lezioni private ed altre storie possiamo argomentare che mille e cinquecento fanciulli sono passati sotto le forche caudine della tua grammatica e della tua aritmetica. Che cosa ne hai fatto? Dov’è Cesare? Dov’è Dante? Dov’è Galileo? Dov’è Sisto V? Dov’è Napoleone? Dov’è Napoleone, andiamo?

— Ma...

— Non c’è ma che tengano. So quello che vuoi dire, ed è un errore. Bada, un errore grosso, marchiano.

— Io non posso...

— Sta zitto che te lo dico io. Tu vorresti far credere che è Dio che crea i geni.

— Mi pare.

— Dio crea il seme delle quercie, d’accordo; quantunque... basta, lasciamo correre. Ammesso, per farti piacere, che Dio crea il seme delle quercie, se voi altri lo coltivate nello stesso modo delle zucche e delle rape...

— Scusa... [p. 45 modifica]

— Siete voi, col vostro metodo cretino, colla vostra supina acquiescenza all’ordine; con tutto quell’arsenale di dogmi balordi e d’insegnamenti puerili che strozzate gl’ingegni sul nascere, insaccando nelle vostre classi menti umane come altri insacca in un budello carne di maiale!

Momentaneamente calmato dalla sfuriata il colosso girò intorno, roteante di fiamme, il suo occhio nero protetto da un grosso cespuglio di peli ispidi e grigi.

Nati ad un parto, chiamati per questo Romolo e Remo, i due fratelli presentavano le maggiori disparità che si possono riscontrare in due individui appartenenti al medesimo sesso. Quanto Romolo spiegava di potenza e di forza, altrettanto Remo offriva di dolcezza e di remissione. Venuto secondo alla luce, mentre già la famiglia si era rallegrata del maschio poderoso e ne era paga, lui esile e meschino parve subito una superfluità dannosa, un inutile concorrente, una bocca di più. Che faceva al mondo, che importanza poteva avere, lui, così piccolino, in confronto col fratello bellissimo e aitante? Il latte che prendeva dalla madre era un furto fatto all’altro; buono ancora che per gli abiti e per i camicini servivano quelli smessi dal fratello. Remo si avvezzò così presto a non contar nulla che ogni cosa gli sembrava regalata, anche lo stretto necessario; ed essendo la sua [p. 46 modifica] anima mite, manchevole di qualsiasi lievito di invidia, si univa esso pure al coro dei parenti inneggianti alla salute, alla floridezza, all’intelligenza di Romolo. Per ciò che riguarda costui nessuna quercia (quelle quercie che gli erano per segreto istinto tanto care) si era mai levata più libera nell’espansione dell’aria e dei venti. Al sorgere divino della giovinezza l’universo fu suo. Ebbe un giorno nella vita in cui, misurando il braccio erculeo e l’intelletto volonteroso, egli potè dire a sè stesso: «Il mondo è mio!» Tutti pensarono intorno a lui: «Chi sa che cosa diventerà!»

E non aveva fatto nulla. Non era diventato nessuno. Il fiore dei vent’anni cadde dalla sua bella fronte orgogliosa senza aver dato un frutto. Tentò vie diverse, ma non ne percorse alcuna. La sterilità pesava sopra il suo ingegno pur tanto agile e pronto. Il volere non andava di accordo col potere, oppure una falsità di ambiente e di occasione gli aveva stroncate le forze creatrici; ma erano soltanto le cause esterne che egli accusava, per modo che avanzando negli anni il suo umore si era fatto iracondo sospettoso e bizzarro.

Prima vittima de’ suoi accessi di bile era naturalmente il fratello che vi opponeva una rassegnazione tutta fatta di umiltà e di sacrificio. Anima candida e mansueta, nutrita di un vero [p. 47 modifica] spirito religioso, Remo aveva ondeggiato molto tempo fra il sacerdozio e l’insegnamento; si era deciso per quest’ultimo, trascinato dal suo grande affetto per i fanciulli. D’estate e d’inverno, per quarant’anni, dalla sua modesta cattedra di legno grezzo egli aveva insegnato alle piccole animucce affidate alle sue cure le gioie e i doveri dell’uomo onesto tal quale gli venivano suggeriti dal suo concetto ottimista della vita; nè mai la sua coscienza si era offuscata di dubbi tormentosi; mai l’invidia lo aveva morso, mai dilaniato l’orgoglio, mai turbato la cupidigia. Sereno al pari dei fanciulli coi quali viveva, il suo volto recava l’impronta della sua semplicità e sarebbe parso melenso per una certa attitudine di stupore muto se, sotto l’arco troppo rilevato delle sopracciglia, l’occhio non avesse brillato di luce intelligente.

Rosalba, entrando colla zuppiera, interruppe la discussione tra i due fratelli; discussione per modo di dire, perchè nelle violente diatribe di ogni giorno era sempre Romolo che parlava. Era sempre lui che nella febbre rientrata di lotta e di successo inventava il nemico, lo assaliva incalzandolo furiosamente, lo debellava al suolo e pascendosi di un simulacro di vittoria si rizzava per un istante almeno, pago.

Rosalba, deposta la zuppiera, non sedette subito a mensa. Ella apparteneva a quella [p. 48 modifica] categoria di massaie turbolente e brontolone che si ritengono indispensabili quasi come la presenza di Dio. Durante tutto il desinare faceva la spola fra il tinello e la cucina, trovando sempre qualche cosa da rimproverare alla servetta, accusando Remo, sopportando male Romolo. Vedova di un terzo fratello morto povero, essendo ella stessa di umile condizione, viveva in quella casa per affetto dei cognati, ma senza che ciò la arrestasse menomamente nel suo dispotismo meschino di femminuccia il quale riusciva talvolta a soverchiare il dispotismo più virile e più alto di Romolo. Mulier subjecta viro, diceva Remo nelle ore di bonaccia, e commentava con una certa arguzia ingenua: «Il che tradotto significa La donna comanda e l’uomo ubbidisce».

Se poi la servetta che aveva dodici anni, la testa più spettinata e la lingua più volubile di tutto il circondario, si lagnava qualche volta della brutalità della padrona, Remo accarezzandola e sorridendo le parlava di pazienza, di docilità; ed era egli stesso così paziente che l’esortazione sembrava naturale, onde erano per ciò amicissimi.

— Sei stata di sopra? — le mormorò piano in un orecchio, intanto che dietro comando di Rosalba ella levava le scodelle della zuppa.

— Non ho potuto — rispose lesta la servetta. [p. 49 modifica]

Una lieve contrarietà, una contrarietà che era piuttosto malinconia, apparve nel volto aperto dell’onesto pedagogo che si pose, come era sua abitudine in tali frangenti, a battere — oh! ma molto adagio — il tamburello colle dita. Rosalba sospettosa, garrì:

— Non era buona la minestra?

— Eccellente, cara, eccellente.

— Salata — soggiunse Romolo.

— Per me — tornò a dire Remo in tono conciliativo — non me ne sono accorto.

— Che cosa vuoi mai giudicare tu? Sei senza palato.

— Anche questo può darsi.

— E! — tuonò Romolo. — Una patente di maestro non basta per formare il gusto.

— Già! Già! — mormorò Remo sempre più dolce mostrando con un sorriso di apprezzare lo spirito del fratello, ma attento a certi rumori che udiva sopra il soffitto.

La servetta in cucina lasciò cadere un piatto.

— Quella sventata! — gridò Rosalba scattando in piedi e correndo sul luogo del disastro.

Remo, raccattando la sedia e il tovagliolo che nella furia ella aveva sbattuti in terra, e disponendo in belle pieghe il tovagliolo, approfittò della di lei assenza che lo lasciava almeno con un avversario solo, per chiedere al fratello:

— Hai visto Ippolito nel pomeriggio? [p. 50 modifica]

— Sì.

— E come stava?

— Ma benone. Cattiva pelle si salva sempre.

— Che disse il medico?

— A sentir lui la convalescenza è appena iniziata. Solite storie per tirare in lungo. Se mi fossi immaginato una cosa simile lo tenevo a Bergamo o in un modo o nell’altro. E fu per economia... Bella economia, oh! sì, bella! E tu, che fai il maestro, perchè non me lo hai suggerito? Si sarebbe evitato tutto. Ma già basta insegnare agli altri per non capire niente in casa propria. Ed è pure un tuo beniamino quel rompicollo!

— La sua azione in quella notte è stata eroica però.

— L’eroismo di un pazzo. Eroismo! Eroismo? — continuò Romolo esaltandosi in una visione d’impotenza rabbiosa. — Sono questi gli eroi! Quattro salti acrobatici e la fama è stabilita. Uno consuma la vita tendendo il proprio genio come arco alla gloria e rimane oscuro; un ragazzaccio salta dalla finestra ed eccolo celebre. Tutti i giornali s’interessano di lui, fioccano le interviste, la posta è occupata solamente a servirgli gli omaggi.... L’eroe! L’eroe! Vedremo quando codesto eroe ci rimborserà le spese. È lì che lo aspetto!

Un movimento insolito in cucina, una [p. 51 modifica] esclamazione della servetta, un’altra più forte di Rosalba e contemporaneamente un’ombra sulla soglia dell’uscio li fece rimanere entrambi a bocca aperta.

Cessato lo sbalordimento della sorpresa Remo si alzò tendendo le braccia quasi temesse che all’ombra cara mancassero le forze per accostarsi, e disse dolcemente, con quella sua tenerezza calma e remissiva:

— Ippolito, non è questa una imprudenza?!