Viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos/Capitolo III

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Capitolo III

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III.


Steamer-Point. — Il promontorio d’Aden. — La città ed i suoi abitanti. — Sviluppo della colonia dovuto al buon governo degli Inglesi. — Arabi, Somali, Ebrei, Parsis, Indiani. — Le cisterne. — Raccolte mineralogiche. — Escursione a Kursi. — Pretensioni del nachuda. — Un sambuk e le sue delizie. — Assab di nuovo. — Il porticello di Luma. — Amici e nemici. — Falso allarme. — Si mette alla vela. — Canti e danze degli Arabi, a bordo. — Arrivo a Massaua. — Tre giorni di quarantena.


Entrati nel porto di Aden, il 21 marzo, come già è noto al lettore, la nostra prima cura fu di trasferirci a terra e di fissare un alloggio a Steamer-Point, località nella quale sono schierati in riva al mare i più importanti stabilimenti commerciali e marittimi della colonia, nonchè alcuni uffizii dipendenti dal governo. Avendo poi disposta la nostra roba nelle due camerette assegnateci nel Prince of Wales Hotel, ci recammo senza indugio alla città, distante 8 chilometri da quel punto, non tanto per appagare la nostra curiosità, quanto per compiere sollecitamente i preparativi occorrenti pel nostro viaggio a Massaua.

Fatta astrazione dal suo porto, che è ampio e sicuro, e dalla sua posizione geografica 1, il promontorio di Aden, montagna vulcanica, senza una stilla d’acqua, scevra di vegetazione, esposta agli ardori d’un clima torrido, era senza dubbio poco acconcio all’impianto d’una colonia. Inoltre gli Arabi che nel 1839, all’epoca della prima occupazione inglese, in numero di circa 1500, vivevano miseramente su quella terra abbandonata dalla Provvidenza, erano fanatici musulmani ed implacabili [p. 36 modifica]nemici degli stranieri. Ma il governo britannico, mercè il senso pratico e la perseverante energia che lo distingue, seppe trionfare degli ostacoli che gli opponeva la natura, come di quelli dipendenti dall’uomo, ond’è che, in 30 anni, Aden diventò, tra le sue mani, un centro importante di popolazione, un cospicuo emporio commerciale, una stazione marittima e militare che non ha rivali nel Mar Rosso.

La popolazione della colonia è al presente di circa 40,000 abitanti, di cui più di 30,000 spettano alla sola città di Aden. Quanto all’importanza del suo porto, basti dire che prima dell’apertura del bosforo egiziano vi entravano regolarmente 38 piroscafi al mese, senza tener conto degli altri legni che vi arrivavano eventualmente, ed ora gli approdi sono cresciuti, a dir poco, della metà.

Un tal risultato non è solamente dovuto ai potenti mezzi materiali applicati allo sviluppo ed all’incremento della colonia, ma è conseguenza altresì di un abile indirizzo politico e di una oculata amministrazione, da cui dovrebbero prendere modello tutte le nazioni europee che si prefiggono un consimile scopo. Non ignoravano gli Inglesi, che Aden, a cagione del suo clima e per la natura tutta speciale del suo commercio, assai poco avrebbe potuto avvantaggiarsi dell’elemento europeo, il quale affluisce soltanto nelle colonie in cui la fecondità del suolo e la ricchezza dei prodotti promettono, senza grandi fatiche, rapidi e cospicui guadagni. Pertanto, si studiarono di attirarvi gli abitanti dei paesi vicini, cui le condizioni fisiche della località si confanno assai meglio, e riuscirono perfettamente nell’intento. Infatti sotto la provvida tutela delle leggi britanniche, Africani, Arabi, Indiani d’ogni ceto e d’ogni religione, liberi nelle loro credenze e nell’esercizio dei proprii culti, protetti efficacemente nella persona e negli averi, favoriti nei traffici e nelle industrie, hanno trovato colà una seconda patria, alla cui prosperità tutti più o meno contribuiscono, secondo le proprie forze.

La promiscuità dei tipi, la varietà degli abbigliamenti presenta in Aden uno spettacolo assai strano agli occhi d’un viaggiatore novizio. Sugli scali destinati allo scarico delle merci e ai depositi di carbone, s’offrono primi alla vista Arabi indigeni, che hanno obliati gli antichi rancori e si sono assoggettati alla nuova signoria. Il loro corpo macilento ed abbronzito, è coperto [p. 37 modifica]da una corta tunica turchina stretta, alla vita con una fune di pelo di cammello; sul capo hanno un turbante parimente turchino, legato con una simile cordicella. Essi sono facchini o cammellieri, occupati nel trasporto delle merci. Con questi dividono i più faticosi lavori i fieri Somali seminudi, dalle membra tarchiate, lucide come ebano lustrato, e vanno superbi della loro folta e ruvida chioma, che sogliono imbozzimare di grasso e calcina, affinchè acquisti quella tinta rossiccia che apprezzano più di ogni altra. Molti vispi fanciulletti, schiavi somali liberati dagli Inglesi, passano la giornata attorno ai bazar ed alle locande di Steamer-Point, sollecitando il bacscise (mancia) dai viaggiatori, ed offrendo loro, per tenue moneta, lo spettacolo di un pugillato.

I pallidi figli d’Israele, il cui volto è qui improntato dei caratteri tradizionali della loro stirpe, esibiscono ai forestieri piume di struzzo, o li invitano a visitare i dintorni nelle loro carrozze, giacchè esercitano la professione di mercadanti o quella di vetturini. Costoro portano i capelli rasi, ad eccezione di due lunghe ciocche arricciate che pendono ai due lati della faccia, e vestono una lunga tunica di lana a larghe maniche, listata inferiormente di fettuccie a colori; un berretto cilindrico e basso copre la loro testa. I doviziosi Parsis, meritamente stimati per la loro onestà ed intelligenza, amministrano i principali negozi, le agenzie dei battelli a vapore ed altri importanti uffici, ma siccome sono in piccol numero, è raro scorgere nella folla multicolore delle vie d’Aden la loro mitra di tela incerata e la toga nera che indossano abitualmente. All’incontro ad ogni passo t’imbatti in Baniani, dalle candide vesti e dai ricchi turbanti fregiati di seta rossa e d’oro, qui venuti per ragioni di commercio. Nelle adiacenze del porto arabo, e più sui mercati, si affollano marinai e mercatanti dell’Egias, del Jemen e dell’Oman, di cui mal saprei descrivere le foggie molteplici dei giubbetti a colori e delle seriche zimarre. Quanto contrasta con questi tipi orientali, degni di figurare nei racconti della sultana Sheerazade, il soldato inglese, che lindo ed attillato, nella sua bianca uniforme, col berretto sulle ventitrè e i capelli biondi accuratamente spartiti sulla nuca, cammina a passo misurato e grave come fosse alla parata!

Taccio, in questa incompleta rassegna, della varietà che s’ag[p. 38 modifica]giunge alla scena, quando i piroscafi postali reduci dal Giappone, dalla Cina, delle Indie, dall’Australia e dall’Europa riversano il loro eterogeneo contingente di passeggieri sui lidi di Aden.

Frammezzo alla gente che empie e strade e piazze, non si vede un solo uomo armato, poichè ciascuno indistintamente, entrando in città, è costretto, in virtù di una saggia prescrizione della polizia, a deporre le proprie armi, che gli sono poi restituite all’uscire. Gli stessi militari inglesi non ne portano se non quando montano la guardia.

Steamer-Point è connessa con Aden per mezzo di una larga strada, in gran parte praticata nella viva roccia, che seguita per alcun poco la riva del mare, fiancheggiata di tratto in tratto da borghi popolosi; poi, presso al porto arabo, volge a levante, e con serpeggiante salita, penetra in una profonda fenditura aperta dall’uomo nella collina; quindi, per l’opposto declive, sbocca in una depressione circondata di alte rupi rossigne, disposte ad anfiteatro, nel fondo della quale giace la città di Aden. Questa non possiede alcun edifizio degno di nota, tranne una bella chiesa di stile gotico; ma è per la sua costruzione assai appropriata al clima. Le case vi sono basse, a tetto spianato e spesso munite di verande all’indiana; le vie ampie e ben tagliate vi si intersecano ad angolo retto. Vi si trovano grandi mercati coperti, provvisti d’ogni derrata e numerose caserme ove alberga la guarnigione, per la massima parte formata di contingenti indiani.

Fuori della città, in una sorta di burrone, compreso fra due monti di lava, furono praticate, per mezzo di opportuni argini, parecchie immense cisterne, di forma irregolare, distribuite a varie altezze, in guisa che il soverchio dell’una passa nell’altra. Quando io le vidi erano all’asciutto, e mi si disse che si empiono solamente durante il breve periodo delle pioggie. La maggior parte dell’acqua potabile, di cui si fa uso nella colonia, proviene dai grandi apparati distillatorii stabiliti a Steamer-Point.

Sul punto culminante del promontorio di Aden, situato a 550 metri sul livello del mare, d’onde l’occhio spazia in un vastissimo orizzonte, sta sempre un uomo in vedetta, e quando avvista un bastimento, ne reca avviso con segnali, che sono tosto ripetuti a Steamer-Point e in Aden.

L’indomani del nostro arrivo, prendemmo commiato dagli [p. 39 modifica]amici, ufficiali dell’Africa, che con noi avevano diviso da oltre un mese l’avversa e la prospera fortuna, e non senza rammarico vedemmo il piroscafo allontanarsi alla volta di Bombay, ove di già l’aspettava un cospicuo carico di cotone.

Erasi stabilito, fra il professore Sapeto e noi, che si sarebbe noleggiata in comune una barca araba per condurci alle nostre rispettive destinazioni, cioè egli ad Assab, e noi a Massaua. Trovata dunque la nave appropriata al caso nostro (pel prezzo di 80 talleri, tutto compreso), mentre il professore stava disponendo le proprie faccende pel viaggio, avendo noi ultimato ogni preparativo, profittammo del tempo che ci rimaneva per fare alcune passeggiate nelle vicinanze immediate di Aden e di Steamer-Point, collo scopo di raccogliere qualche saggio delle produzioni locali. Dal canto mio potei procacciarmi alcuni bei campioni di roccia e varie specie di minerali.

Nel territorio di Aden, a differenza di quello di Assab, in cui la costituzione litologica del suolo offre notevole uniformità, si incontra una ricca serie di lave trachitiche contenenti buon numero di silicati cristallizzati, il cui studio riuscirebbe proficuo a quel mineralogista che avesse agio e tempo di dedicarvi le proprie fatiche. Mentre in generale le lave di Assab sono costituite di elementi anidri, connessi intimamente in una pasta omogenea, quelle di Aden risultano quasi sempre di materiali idrati, che conservano nella roccia la propria individualità. Osservai poi sopra una grande scala, nei monti adiacenti a Steamer-Point, l’esistenza di letti di lava disposti in strati orizzontali e presso a poco paralleli, il qual fatto si potrebbe interpretare come il risultato della sovrapposizione di varii letti di lava, eruttata in uno stato di eccezionale fluidità. Notai pure in qualche punto una sorta di tufo proveniente da eruzioni fangose.

Desiderosi di portare un po’ più lungo i nostri passi, ci recammo una mattina, con una barca araba, sulla riva occidentale della baia d’Aden, ed attraversata una pianura bassa ed arenosa, nella località che chiamasi Kursi, fummo rallegrati dalla vista d’una bella distesa di terreni coltivati a dura e a cotone, sparsi di ombriferi palmizi e di acacie. Svolazzavano sugli alberi e sui cespugli graziosi uccelletti, tra i quali spiccavano pei vivi colori: un bel Merops, una Nectarinia e la graziosa tortorella del Capo (Hectopistes capensis), più piccola, ma [p. 40 modifica]più riccamente adornata della nostrana. Al limitare dei campi, ci imbattemmo in una rôcca araba, dalle mura merlate, non molto dissimile dai nostri castelli medioevali, ma fabbricata con terra indurita al sole; e poco lunge, trovammo un pozzo a bindolo, opera d’un giardiniere cinese, condannato a domicilio coatto per omicidio. In questo punto, il sole essendo giunto presso il zenit, sentimmo il bisogno di confortarci con un frugale asciolvere e di riposarci alcun poco all’ombra delle piante. La sera stessa, passato di nuovo il mare, eravamo di ritorno a Steamer-Point, contenti della nostra escursione, e l’appetito acquistato durante la passeggiata ci fece sembrare gustosi gli abbominevoli intingoli della cucina indiana imbanditi alla tavola del nostro albergo.

Quando, allestiti di tutto punto, eravamo in procinto d’imbarcarci, fummo informati che il nachuda (capitano) del legno noleggiato per conto nostro, e per noi soli, pretendeva accogliere a bordo molti altri passeggeri, tra i quali un certo Greco, il cui ceffo burbero ci andava poco a genio. Siccome ad onta del nostro espresso divieto non recedeva dalle sue pretensioni, allegando impegni anteriori ed altri pretesti, ricorremmo al capo della polizia per liberarci dai poco ambiti compagni, almeno della massima parte; chè non fummo tanto accorti da impedire all’astuto nuchada d’imbarcarne qualcuno furtivamente. Comunque sia, la sera del 30 marzo eravamo a bordo, e spiegate le vele al vento propizio, ci abbandonammo di nuovo al mobile elemento.

La nostra barca è un sambuk arabo, della capacità di circa 30 tonnellate, al pari delle altre navi della stessa specie, corto, panciuto e munito, come le antiche galee, d’un castello di poppa alquanto elevato, sotto il quale si trova una cameruccia, aperta all’innanzi 2. All’infuori del casseretto di poppa non porta coperta. La prora è bassa, assottigliata, prominente, col tagliamare assai inclinato per facilitare l’approdo sui bassifondi. I due alberi non paralleli e disuguali (quello di prua assai maggiore dell’altro) sostengono per ciascuno una lunga antenna, cui si attacca un’ampia vela latina. Simili sambuk, dotati di membratura solida [p. - modifica]Il Padre Stella. [p. 41 modifica]e massiccia, sono fasciati di piccole tavole, assicurate con perni di legno e chiodi di ferro ribaditi. Lo scafo ne è spalmato non già di catrame, come si usa presso di noi, ma di calce mista con sego.

La navigazione colle barche arabe si esercita ancora oggidì nel modo istesso con cui si praticava ai tempi di Annone cartaginese, senza carte, senza sestante e non sempre colla scorta dell’ago calamitato. Debbo però soggiungere, ad onore del nostro capitano Mohammed-el-Buredi, che consultava da quando a quando una piccola bussola, nel suo abitacolo, sopra uno strato di saggina, che faceva le veci di sospensione cardanica.

Quanto è diverso il viaggiare a bordo alle immani vaporiere europee, veri palazzi galeggianti, in cui il passeggiere si gode tutti gli agi, tutte le superfluità del vivere civile, dall’abbandonarsi in balìa del mare sulle fragili navicelle degli Arabi, zimbello dei venti e dei marosi! Il viaggiatore imbarcato su di un sambuk è confinato nella cameretta, che serve anche di ripostiglio per gli attrezzi di bordo, ovvero nello spazio ristretto della tolda, tutta ingombra di sartie, di legnami, di casse; a segno che non può mover passo senza inciampare. Nel giorno lo molesta l’ardore del sole, spesso intollerabile; dopo il tramonto, l’umido che fa molli i suoi panni; ed inoltre, nella notte, insetti di molte specie, e più di tutti schifose blatte, scaturiscono da ogni commessura, infestano il suo giaciglio e non gli lasciano un momento di requie. La minima agitazione del mare è poi sufficiente ad imprimere al legno un movimento di altalena, accompagnato da scrosci discordanti, che se non sconvolge lo stomaco, vale per lo meno a turbare il riposo. Lascio pensare al lettore quale inferno diventi il naviglio quando è sbattuto dalla procella. Ma il caso è raro, chè i nocchieri arabi non peccano di soverchio ardire, ed appena il tempo si fa minaccioso, e sono assai sagaci nello scoprire i segni forieri della tempesta, si affrettano a porsi in salvo in qualche seno o cala della costa più vicina. In ciò giova loro la perfetta cognizione che generalmente possiedono dei littorali. Se al novero di questi disagi, aggiungerò quello delle privazioni inseparabili da un lungo viaggio, e dei fastidii che immancabilmente procura all’Europeo l’ostilità della ciurma malvagia e superstiziosa, avrò tracciato un quadro veritiero delle tribolazioni che si soffrono [p. 42 modifica]a bordo ad una barca araba. Per contrapposto metterò sul conto dei vantaggi che offre questa maniera di viaggiare, la vista variata ed interessante delle coste; lo spettacolo sempre nuovo e sublime delle grandi scene della natura (come il levar del sole, il tramonto, la fosforescenza del mare, il cielo stellato e puro), di cui gli occhi e la mente possono pascersi a loro bell’agio, e finalmente l’occulta poesia che va unita alla calma ed alla solitudine d’un mare limpido e tranquillo.

Spirando tutta la notte una impetuosa brezza di levante, ci ritrovammo l’indomani al cospetto delle rupi sconsolate di Perim, e l’istessa sera si ancorava nella baia d’Assab, nella quale entrammo questa volta per l’imboccatura meridionale. Ma, giunti colà, non fu possibile scendere a terra, e tanto meno sbarcare sullo scalo di Buia i pesanti bagagli del professore Sapeto, perchè il mare era troppo agitato. Il dì seguente, essendo il tempo sempre guasto, ci recammo, secondo consigliava il professore, nel piccolo e tranquillo seno di Luma, anfrattuosiàa della costa che trovasi fuori della baia, presso il confine settentrionale del possedimento italiano, di contro all’isoletta vulcanica di Sennabiar, e quivi le persone, i bagagli furono senza impedimento depositati sulla riva. Il professore col suo segretario ed un servo, fattisi colle casse e le balle di provviste, unite ad alcune stuoie, un provvisorio ricovero contro i raggi infuocati del sole, vi si accamparono, aspettando una favorevole occasione per trasferirsi nella capanna fabbricata dall’equipaggio dell’Africa, di fronte all’ancoraggio di Buia. Ben presto capitarono i nostri antichi amici danakil, e dopo aver riscossi i loro talleri, si stabilirono anch’essi sulla spiaggia.

Mentre siamo a terra, presso la capanna improvvisata, ecco sbucare fuori, poco lunge, da un boschetto di palmizi, un uomo a cavallo, ammantato di rosso, che porta in pugno una bandiera egiziana ed è seguito da una piccola scorta di armati. Costui è, a quanto pare, un Danakil, capo di un territorio confinante a nord-ovest con quello da noi acquistato. Crucciato di non aver preso alcuna parte della grossa pecunia toccata ad Ibrahim ed Hassan, egli protesta altamente contro il contratto stipulato senza il suo assenso. E per dar maggior forza alle sue parole fa sventolare un cencio rosso, simbolo d’una signoria che non esiste colà nè di fatto nè di diritto, e che egli d’al[p. 43 modifica]tronde abborrisce, come l’abborriscono del puri i suoi connazionali. A tal vista i Danakil nostri amici si commuovono, sfoderano i pugnali e brandiscono le lancie. Cedendo alle loro istanze noi mettiamo fuora una bandiera italiana, ed essi la inalberano sopra una lancia dichiarando al professore che quella è d’or innanzi la loro insegna e sapranno difenderla. I più giovani, i più bollenti, che ardono già di azzuffarsi, guardano in cagnesco gli avversari, stringono le pugna e digrignano i denti. Ma i più vecchi li ammoniscono e li trattengono. Il partito dissidente, in quel mentre, si arresta a piè di un albero sul quale pianta la propria bandiera; uno de’ suoi viene poscia a noi come parlamentario, ed avvicinatosi con circospezione, si abbocca con alcuno dei nostri Danakil. S’impegna allora una lunga e vivissima discussione, alla quale non intendiamo verbo, il cui risultato si è che in breve il messo e la sua brigata, mogi e confusi, si allontanano per la strada stessa d’onde erano venuti.

Esaurito questo piccolo incidente, Ibrahim ed Hassan ci avvisarono di stare all’erta, poichè le provviste e i bagagli del professore, depositati sulla spiaggia, quasi senza difesa, avrebbero sicuramente eccitata la cupidigia dei beduini dell’interno, e già si buccinava che un giorno o l’altro sarebbero piombati sull’accampamento per far bottino. Ho qualche ragione di credere che il supposto pericolo fosse una ingegnosa Invenzione, mercè la quale speravano vivere, a titolo di guardie, alle spalle dei nostri compagni.

Frattanto eravamo sulle spine perchè Mohammed-el-Beredi, stimolato dagli Arabi, che, come già dissi, si erano imbarcati di soppiatto sul sambuk, deludendo la nostra vigilanza, instava per salpare immantinente; mentre noi non avremmo voluto separarci dal professore Sapeto, prima che fosse giunta una barca, aspettata da Aden colle corrispondenze, nella quale egli ed i suoi avrebbero potuto, occorrendo il caso, sottrarsi ad ogni rischio fino all’arrivo dell’Africa, che doveva far capo ad Assab, tornando da Bombay. Cominciando la ciurma a tumultuare pel ritardo che si frapponeva alla partenza, il capitano ci avvertiva che non avrebbe sofferto più lungo indugio e sarebbe partito senza di noi; ed anzi una notte, mentre io ero a terra, un tentativo di levar l’ancora, tosto represso da Antinori e Beccari, susseguiva la minaccia. Vedemmo allora che bisognava cedere [p. 44 modifica]per non compromettere tutti i nostri progetti, e la mattina del 5 aprile si mise alla vela 3.

Da principio, mentre il vento ci secondava gagliardamente, il mare era sempre mosso, e la barca s’alzava e s’abbassava in siffatto modo, che il mio stomaco n’era tutto sconvolto, e non mi riusciva la notte di pigliar sonno. Sottentrata la calma, la nostra navigazione si continuò quietamente, e ben presto si profilarono all’orizzonte le alpi etiopiche, e si riconobbe il gruppo del Gadam, appiè del quale si asconde l’isoletta di Massaua. Il grave e serio contegno dei marinai e dei passeggieri si cangiò allora in clamorose dimostrazioni di giubilo, pel viaggio in s ìbreve tempo compiuto e per la speranza di toccare ben presto la terra. Ora manifestavano la loro allegrezza cantando o meglio vociando barbaramente, accompagnandosi col battito concitato del tamburello; ora percuotevano tutti insieme le mani a tempo secondo un ritmo determinato, qualche volta danzavano con bizzarre contorsioni; e così continuarono a far baldoria, fino al momento in cui si dette fondo nel porto. Dopo l’arrivo ci disponevamo tosto ad abbandonare il sambuk, quando l’autorità sanitaria ci significò che eravamo condannati a tre giorni di contumacia, da scontarsi nel nostro domicilio galleggiante. Subìto, non dirò con pazienza, ma con rassegnazione, questo inaspettato contrattempo, profittammo immediatamente della nostra libertà per scendere nell’isola e consegnare le commendatizie, di cui eravamo muniti, al governatore e ad alcuni Europei residenti in Massaua.

Note

  1. La penisola d’Aden è situata a 30 leghe marine all’est dello stretto di Bab-el-Mandeb, sulla costa meridionale del Jemen e si protende per circa 9 chilometri, con una larghezza massima di 5 chilometri.
  2. Le navi denominate bagle dagli Arabi presentano le medesime forme, e raggiungono la portata di 100 e perfino 200 tonnellate.
  3. Il giorno stesso ancorava nella baia la Vedetta, di cui son note le dolorose peripezie, e dopo aver fatta una breve stazione in quelle acque, ritornava in Europa, riconducendo il professore. L’Africa vi giunse poco appresso reduce da Bombay, e ripartì subito dopo per Suez e Genova.